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stanza, dava ad Andrea un diletto così vivo ch’egli esclamò:

― Parlate, Elena; parlate ancora!

Ella rise. E domandò:

― Perchè?

Egli rispose, prendendole la mano:

― Voi lo sapete.

Ella ritrasse la mano; e guardò il giovine fin dentro li occhi.

― Io non so più nulla.

― Voi siete dunque mutata?

― Molto mutata.

Già il “sentimento„ li traeva ambedue. La risposta di Elena chiariva d’un tratto il problema. Andrea comprese; e, rapidamente ma precisamente, per un fenomeno d’intuizione non raro in certi spiriti esercitati all’analisi dell’essere interiore, intravide l’attitudine morale della visitatrice e lo svolgimento della scena che dovea seguire. Egli però era già tutto invaso dalla malìa di quella donna, come una volta. Inoltre, la curiosità lo pungeva forte. Disse:

― Non sedete?

― Sì, un momento.

― Là, su la poltrona.

― Ah, la mia poltrona! ― ella stava per dire, con un moto spontaneo, poichè l’aveva riconosciuta; ma si trattenne.

Era una seggiola ampia e profonda, ricoperta d’un cuoio antico, sparso di chimere pallide a rilievo, in sul gusto di quello che ricopre le pareti d’una stanza del palazzo Chigi. Il cuoio aveva preso quella tinta calda e opulenta che ricorda certi fondi di ritratti veneziani, o un