specie di rassegnazione cupa, come un malato che abbia perduta ogni fiducia di guarire e sia disposto a vivere del suo proprio male, a raccogliersi nella sua sofferenza, a profondarsi nella sua miseria mortale. Gli pareva che di nuovo l’antica lebbra gli si dilatasse per l’anima e di nuovo il cuore gli si vuotasse per non riempirsi più mai, come un otre forato, irreparabilmente. Il senso di questa vacuità, la certezza di questa irreparabilità gli movevano talvolta una specie di collera disperata e poi un disprezzo folle di sè medesimo, del suo volere, delle ultime sue speranze, delli ultimi suoi sogni. Egli era giunto a un terribile momento, incalzato dalla vita inesorabile, dall’implacabile passione della vita; era giunto al momento supremo della salvezza o della perdizione, al momento decisivo in cui i grandi cuori rivelano tutta la loro forza e i piccoli cuori tutta la loro viltà. Egli si lasciò sopraffare; non ebbe il coraggio di salvarsi con un atto volontario; pur essendo in balìa del dolore, ebbe paura d’un dolore più virile; pur essendo travagliato dal disgusto, ebbe paura di rinunziare a ciò che lo disgustava; pur avendo in sè vivo e spietato l’istinto del distacco dalle cose che più parevano attrarlo, ebbe paura di allontanarsi da quelle cose. Egli si lasciò abbattere; abdicò intieramente e per sempre alla sua volontà, alla sua energia, alla sua dignità interiore; sacrificò per sempre quel che gli rimaneva di fede e d’idealità; si gittò nella vita, come in una grande avventura senza scopo, alla ricerca del godimento, dell’occasione, dell’attimo felice, af-