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quel grande e raro apparato d’amore si perdeva inutilmente.
Inutilmente! Nelle alte coppe fiorentine le rose, anch’esse aspettanti, esalavano tutta la intima lor dolcezza. Sul divano, alla parete, i versi argentei in gloria della donna e del vino, frammisti così armoniosamente agli indefinibili colori serici nel tappeto persiano del XVI secolo, scintillavano percossi dal tramonto, in un angolo schietto disegnato dalla finestra, e rendevan più diafana l’ombra vicina, propagavano un bagliore ai cuscini sottostanti. L’ombra, ovunque, era diafana e ricca, quasi direi animata dalla vaga palpitazion luminosa che hanno i santuarii oscuri ov’è un tesoro occulto. Il fuoco nel camino crepitava; e ciascuna delle sue fiamme era, secondo l’imagine di Percy Shelley, come una gemma disciolta in una luce sempre mobile. Pareva all’amante che ogni forma, che ogni colore, che ogni profumo rendesse il più delicato fiore della sua essenza, in quell’attimo. Ed ella non veniva! Ed ella non veniva!
Sorse allora nella mente di lui, per la prima volta, il pensiero del marito.
Elena non era più libera. Aveva rinunziato alla bella libertà della vedovanza, passando in seconde nozze con un gentiluomo d’Inghilterra, con un Lord Humphrey Heathfield, alcuni mesi dopo l’improvvisa partenza da Roma. Andrea infatti si ricordava di aver visto l’annunzio del matrimonio in una cronaca mondana, nell’ottobre del mille ottocento ottanta cinque; e d’aver sentito fare su la nuova Lady Helen