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che ha tutte le pareti coperte di specchi; la danzano sopra un pavimento intarsiato d’amaranto e di cedro, sotto un gran lampadario di cristallo dove le candele stanno per consumarsi e non si consumano mai. E le dame hanno nelle bocche un poco appassite un sorriso tenue ma inestinguibile; e i cavalieri hanno negli occhi un tedio infinito. E un oriuolo a pendolo segna sempre un’ora; e gli specchi ripetono ripetono ripetono sempre le stesse attitudini; e la Gavotta continua, continua, continua, sempre dolce, sempre piana, sempre eguale, eternamente, come una pena.

Quella malinconia m’attira.

Non so perchè, la mia anima tende a quella forma di supplizio; è sedotta dalla perpetuità d’un dolore unico, dalla uniformità, dalla monotonia. Accetterebbe volentieri per tutta la vita una gravezza enorme, ma definita e immutabile, invece della mutabilità, delle imprevedibili vicende, delle imprevedibili alternative. Pur essendo abituata alla sofferenza, ha paura dell’incerto, teme le sorprese, teme gli urti improvvisi. Senza esitare un istante, in questa notte accetterebbe qualunque più grave condanna di dolore a patto d’essere assicurata contro gli ignoti agguati dell’avvenire.

Mio Dio, mio Dio, da che mi viene una paura così cieca? Assicuratemi voi! Metto la mia anima nelle vostre mani.

E ora basta questo tristo vaneggiare che pur troppo addensa l’angoscia invece di alleviarla. Ma io so già che non potrò chiudere gli occhi sebbene mi dolgano.