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L’avvenire è lugubre, come un campo pieno di fosse già scavate e pronte per ricevere cadaveri; e sul campo qua e là ardono pallidi fanali ch’io appena scorgo; e non so se ardano per attrarmi nel pericolo o per mostrarmi una via di salvezza.

Ho riletto il Giornale, attentamente, lentamente, dal 15 di settembre, dal giorno ch’io giunsi. Quanta differenza da quella prima notte a quest’ultima!

Io scriveva: “Mi sveglierò in una casa amica, nella cordiale ospitalità di Francesca, in questa Schifanoja che ha rose così belle e cipressi così grandi; e mi sveglierò avendo innanzi a me qualche settimana di pace, venti giorni d’esistenza spirituale, forse più...„ Ahimè, dov’è andata la pace? E le rose, così belle, perchè sono state anche così perfide? Troppo, forse, ho aperto il cuore ai profumi, incominciando da quella notte, su la loggia, mentre Delfina dormiva. Ora la luna d’ottobre allaga il cielo; e io vedo a traverso i vetri le punte dei cipressi, nere e immutabili, che in quella notte toccavano le stelle.

Una sola frase di quel preludio io posso ripetere in questa fine trista. “Tanti capelli nel mio capo, tante spighe di dolore nel mio destino.„ Le spighe si moltiplicano, s’inalzano, ondeggiano come un mare; e non è anche estratto dalle miniere il ferro per foggiar la falce.

Io parto. Che accadrà di lui, quando io sarò lontana? Che accadrà di Francesca?

Il mutamento di Francesca è pur sempre in-