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Perciò la sua casa era un perfettissimo teatro; ed egli era un abilissimo apparecchiatore. Ma nell’artificio quasi sempre egli metteva tutto sè; vi spendeva la ricchezza del suo spirito largamente; vi si obliava così che non di rado rimaneva ingannato dal suo stesso inganno, insidiato dalla sua stessa insidia, ferito dalle sue stesse armi, a somiglianza d’un incantatore il quale fosse preso nel cerchio stesso del suo incantesimo.

Tutto, in torno, aveva assunto per lui quella inesprimibile apparenza di vita che acquistano, ad esempio, gli arnesi sacri, le insegne d’una religione, gli strumenti d’un culto, ogni figura su cui si accumuli la meditazione umana o da cui l’imaginazione umana poggi a una qualche ideale altezza. Come una fiala rende dopo lunghi anni il profumo dell’essenza che vi fu un giorno contenuta, così certi oggetti conservavano pur qualche vaga parte dell’amore onde li aveva illuminati e penetrati quel fantastico amante. E a lui veniva da loro una incitazione tanto forte ch’egli n’era turbato talvolta come dalla presenza d’un potere soprannaturale.

Pareva, in vero, ch’egli conoscesse direi quasi la virtualità afrodisiaca latente in ciascuno di quegli oggetti e la sentisse in certi momenti sprigionarsi e svolgersi e palpitare intorno a lui. Allora, s’egli era nelle braccia dell’amata, dava a sè stesso ed al corpo ed all’anima di lei una di quelle supreme feste il cui solo ricordo basta a rischiarare una intiera vita. Ma s’egli era solo, un’angoscia grave lo stringeva, un rammarico inesprimibile, al pensiero che