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Dopo aver visitata la torre ed avere ammirato l’ostensorio, ci accingemmo a ripartir da Vicomìle verso le cinque e mezzo. Francesca era stanca; e le piacque, più tosto che rimontare a cavallo, tornar col mail-coach. Noi seguimmo per un tratto, cavalcando ora in dietro ora ai lati. Di sul legno, Delfina e Muriella agitavano verso noi lunghe canne fiorite e ridevano minacciandoci con i bei pennacchi violacei.
Era una sera tranquillissima, senza vento. Il sole stava per cadere dietro il colle di Rovigliano, in un cielo tutto rosato come un cielo dell’estremo Oriente. Rose rose rose piovevano da per tutto, lente, spesse, molli, a simiglianza d’una nevata in un’aurora. Quando il sole scomparve, le rose si moltiplicarono, si diffusero fin quasi all’orizzonte opposto, perdendosi, sciogliendosi in un azzurro chiarissimo, in un azzurro argentino, indefinibile, simile a quello che s’incurva su le cime delle montagne coperte di ghiacci.
Era egli che di tratto in tratto mi diceva: ― Guardate la torre di Vicomìle. Guardate la cupola di San Consalvo....
Quando la pineta fu in vista, egli mi chiese: ― Attraversiamo?
La strada maestra costeggiava il bosco, descrivendo una larga curva e avvicinandosi al mare, fin quasi sul lido, nella sommità dell’arco. Il bosco appariva già tutto cupo, d’un verde tenebroso, come se l’ombra si fosse accumulata su le chiome degli alberi lasciando ancor limpida l’aria superiore; ma, per entro, gli sta-