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passata quasi tutta nella cappella. Per l’ora della colazione egli non è ritornato. La sua assenza mi faceva soffrire così ch’io era stupita dell’acutezza di quel soffrire. Son venuta qui nella stanza; per diminuir la pena, ho scritta una pagina del Giornale, una pagina religiosa, riscaldandomi al ricordo della mia fede matutina; poi ho letto qualche brano dell'Epipsychidion di Percy Shelley; poi son discesa nel parco a cercar di mia figlia. In tutti questi atti, il pensiero vivo di lui mi teneva, mi occupava, mi tormentava senza tregua.

Quando ho riudita la sua voce, io era sulla prima terrazza. Egli parlava con Francesca, sul vestibolo. Francesca s’è affacciata, chiamandomi dall’alto: ― Vieni su.

Risalendo la scala, sentivo che le ginocchia mi si piegavano. Salutandomi, egli mi ha tesa la mano; e deve aver notato il tremito della mia perchè ho visto qualche cosa passargli nello sguardo, rapidamente. Ci siamo seduti su le lunghe sedie di paglia, nel vestibolo, rivolti al mare. Egli ha detto d’essere molto stanco; e s’è messo a fumare, raccontando la sua cavalcata. Era giunto sino a Vicomìle, dove aveva fatto una sosta.

― Vicomìle ― ha detto ― possiede tre meraviglie: una pineta, una torre, e un ostensorio del Quattrocento. Figuratevi una pineta tra il mare e il colle, tutta piena di stagni che moltiplicano il bosco all’infinito; un campanile di stil lombardo barbaro, che risale certo al XI secolo, uno stelo di pietra carico di sirene, di paoni, di serpenti, di Chimere, d’ippo-