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dono un poco a questo nuovissimo sentimento, chiudendo gli occhi sul pericolo lontano, chiudendo gli orecchi alle ammonizioni savie della conscienza, con il trepidante ardire di chi, per cogliere le violette, s’avventura su l’orlo d’un abisso in fondo a cui rugge un fiume vorace.

Egli non saprà nulla dalla mia bocca; io non saprò nulla dalla sua. Le Anime saliranno insieme, un breve tratto, su per le colline dell’Ideale, beveranno qualche sorso alle fonti perenni; quindi ciascuna riprenderà la sua via, con maggior confidenza, con minor sete.

Che tranquillità nell’aria, dopo il mezzogiorno! Il mare ha il color bianco azzurrognolo latteo d’un opale, d’un vetro di Murano: ed è qua e là come un cristallo appannato da un alito.

Leggo Percy Shelley, un poeta ch’egli ama, il divino Ariele che si nutre di luce e parla nella lingua degli Spiriti. È notte. Questa allegoria mi si leva d’innanzi visibile.

“Una porta di cupo diamante si spalanca sul gran cammino della vita da noi tutti esercitato, una caverna immensa e corrosa. In torno imperversa una perpetua guerra di ombre, simili alle nuvole inquiete che s’affollano nella fenditura d’una qualche montagna scoscesa, perdendosi in alto fra i turbini del cielo superiore. E molti passano con passo incurante, d’innanzi a quel portico, non sapendo che un’ombra segue i vestigi d’ogni passeggero insino al luogo ove i morti aspettano in pace il lor compagno novello. Altri però, mossi da un pensier più curioso, si fermano a riguardare. Sono costoro