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16 settembre. ― Pomeriggio delizioso, passato quasi tutto a conversare con Francesca su le logge, su le terrazze, per i viali, in tutti i luoghi aperti di questa villa che pare edificata da un principe poeta per dimenticare un affanno. Il nome del palazzo ferrarese le convien perfettamente.

Francesca mi ha fatto leggere un sonetto del conte Sperelli, scritto su pergamena: una inezia molto fine. Questo Sperelli è uno spirito eletto ed intenso. Stamani, a tavola, ha detto due o tre cose bellissime. Egli è convalescente d’una ferita mortale avuta in un duello, a Roma, nello scorso maggio. Ha negli atti, nelle parole, nello sguardo quella specie d’abbandono affettuoso e delicato ch’è proprio de’ convalescenti, di quelli che sono usciti dalle mani della morte. Dev’essere molto giovine; ma deve aver molto vissuto, e d’una vita inquieta. Porta i segni della lotta.

Serata deliziosa, di conversazione intima, di musica intima, dopo il pranzo. Io, forse, ho parlato troppo; o, per lo meno, troppo caldamente. Ma Francesca mi ascoltava e mi secondava; e il conte Sperelli, anche. Uno de’ più alti piaceri, nella conversazione non volgare, appunto è sentire che uno stesso grado di calore anima tutte le intelligenze presenti. Allora soltanto, le parole prendono il suono della sincerità e dànno a chi le profferisce e a chi le ode il supremo diletto.

Il cugino di Francesca, è, in musica, un conoscitore raffinato. Ama molto i maestri settecentisti e in ispecie, tra i compositori per clavicembalo, Domenico Scarlatti. Ma il suo più