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ove le cerve sono fate benigne e possenti che giacciono su cuscini di raso e bevono in coppe di zaffiro. Ella tacque, assorta, vedendo già forse la bella bestia bionda satollarsi d’albatrelle, sotto le piante fiorite.
― Andiamo ― disse Donna Maria ― ch’è tardi.
Teneva Delfina per la mano, e camminava sotto le piante fiorite. Sul limite del bosco si soffermò, a guardare il mare.
Le acque, accogliendo i riflessi delle nuvole, davano apparenza d’una immensa stoffa di seta, morbida, fluida, cangiante, mossa in larghe pieghe; e le nuvole, bianche e d’oro, l’una divisa dall’altra ma emergenti da una comune zona, somigliavano statue criselefantine avvolte in veli tenui, alzate sopra un ponte senz’archi.
In silenzio, Andrea spiccò da un álbatro una ciocca che piegava il ramo col suo peso, tanto era folta; e la offerse a Donna Maria. Ella, nel prenderla, lo guardò; ma non aprì bocca.
Si rimisero pe’ sentieri. Delfina ora parlava, parlava abondantemente, ripetendo senza fine le stesse cose, infatuata della cerva, mescolando le più strane fantasie, inventando lunghe storie monotone, confondendo una favola con l’altra, componendo intrichi ne’ quali si smarriva ella stessa. Parlava, parlava, con una specie d’inconscienza, quasi che l’aria del mattino l’avesse inebriata; e intorno a quella sua cerva chiamava figli e figlie di re, cenerentole, reginelle, maghi, mostri, tutti i personaggi de’ regni imaginarii, in folla, in tumulto, come nella metamorfosi continua d’un sogno. Parlava allo stesso modo che