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― Voglio un giumento, per portarmi le albatrelle a casa. Vieni a vedere quante!

Girò il sedile e prese per mano la madre. Ella si levò con qualche fatica; e, poi che fu in piedi, battè più volte le palpebre come per togliersi dalla vista un barbaglio. Anche Andrea si levò. Seguirono ambedue Delfina.

La terribile creatura aveva spogliato di frutti quasi la metà del bosco. Le piante basse non mostravano più su i rami una bacca. Ella s’era aiutata con una canna trovata chi sa dove e aveva fatta una raccolta prodigiosa, riunendo infine tutte le albatrelle ad un sol mucchio che pareva un mucchio di carboni ardenti, per la intensità della tinta, sul suolo bruno. Ma le ciocche de’ fiori non l’avevano attratta: pendevano, bianche, rosee, giallette, quasi diafane, più delicate de’ grappoli d’un’acacia, più gentili de’ mughetti, immerse nella vaga luce come nella trasparenza d’un latte ambrato.

― Oh, Delfina, Delfina! ― esclamò Donna Maria, guardando quella devastazione. ― Che hai fatto?

La bimba rideva, felice, d’innanzi alla piramide vermiglia.

― Bisognerà bene che tu lasci qui ogni cosa.

― No, no...

Ella non voleva, da prima. Poi ripensò; e disse quasi fra sè, con gli occhi luccicanti:

― Verrà la cerva a mangiare.

Aveva, forse, veduto apparire la bella bestia, libera pel parco, in quelle vicinanze; e il pensiero di aver radunato per lei il cibo l’appagò e le accese l’imaginazione già nudrita delle favole