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colarità di eleganza; ed era andato a pranzo da sua cugina, come in ogni altro mercoledì, al palazzo Roccagiovine. Tutte le cose dell’esistenza esteriore avevano su lui un gran potere d’oblio, lo occupavano, lo eccitavano al godimento rapido dei piaceri mondani.

Quella sera, infatti, il raccoglimento gli era venuto assai tardi, quando cioè rientrando nella sua casa aveva veduto brillare sopra un tavolo il piccolo pettine di tartaruga dimenticato da Elena due giorni innanzi. Allora, in compenso, tutta la notte, aveva sofferto, e con molti artifici del pensiero aveva acuito il suo dolore.

Ma il momento si approssimava. L’orologio della Trinità de’ Monti suonò le tre e tre quarti. Egli pensò, con una trepidazione profonda: “Fra pochi minuti Elena sarà qui. Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò?„

L’ansia in lui era verace e l’amore per quella donna era in lui rinato veracemente; ma la espressione verbale e plastica de’ sentimenti in lui era sempre così artificiosa, così lontana dalla semplicità e dalla sincerità, che egli ricorreva per abitudine alla preparazione anche ne’ più gravi commovimenti dell’animo.

Cercò d’imaginare la scena; compose alcune frasi; scelse con li occhi intorno il luogo più propizio al colloquio. Poi anche si levò per vedere in uno specchio se il suo volto era pallido, se rispondeva alla circostanza. E il suo sguardo, nello specchio, si fermò alle tempie, all’attaccatura dei capelli, dove Elena allora soleva mettere un bacio delicato. Aprì le labbra per mirare la perfetta lucentezza dei denti