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gambe diritte, strette nella calza nera, un po’ lunghe dell’affilata lunghezza d’un disegno efebico, si movevano con ritmica agilità.

― Mi sembrate un po’ triste ora, ― disse la senese al giovine ― mentre dianzi, nello scendere, eravate lieto. Vi tormenta qualche pensiero? O non vi sentite bene?

Ella chiedeva queste cose con una maniera quasi fraterna, grave e soave, persuadente alla confidenza. Una voglia timida, quasi una vaga tentazione, prese il convalescente, di mettere il suo braccio sotto il braccio della donna e di lasciarsi condurre da lei in silenzio, per quell’ombra, per quel profumo, su quel suolo consparso di zágare, in quel sentiere che misuravano i vecchi Termini vestiti di musco. Gli pareva quasi d’esser tornato ai primi giorni dopo la malattia, a quei giorni indimenticabili di languore, di felicità, d’inconscienza; e d’aver bisogno d’un appoggio amico, d’una guida affettuosa, d’un braccio familiare. Quel desiderio gli crebbe così che le parole gli salivano alle labbra spontaneamente per esprimerlo. Ma invece rispose:

― No, Donna Maria; mi sento bene. Grazie. È il settembre che mi stordisce un poco...

Ella lo guardò come se dubitasse della verità di quella risposta. Quindi, per evitare il silenzio dopo la frase evasiva, domandò:

― Preferite, fra i mesi neutri, l’aprile o il settembre?

― Il settembre. È più feminino, più discreto, più misterioso. Pare una primavera veduta in un sogno. Tutte le piante, perdendo lentamente la