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Ed era un incanto indefinibile, inesprimibile; era come s’ella portasse nella sua persona una traccia della luce in cui erasi immersa, de’ profumi ch’ella aveva respirati, delli idiomi ch’ella aveva uditi; era come s’ella portasse in sè confuse, svanite, indistinte tutte le magie di que’ paesi del Sole.
La sera, nella gran sala che dava sul vestibolo, ella s’accostò al pianoforte e l’aperse per provarlo, dicendo:
― Suoni ancora, tu, Francesca?
― Oh, no ― rispose la marchesa. ― Ho smesso di studiare, da parecchi anni. Penso che la semplice audizione sia una voluttà preferibile. Però mi do l’aria di proteggere l’arte; e l’inverno in casa mia presiedo sempre a un po’ di buona musica. E vero, Andrea?
― Mia cugina è assai modesta, Donna Maria. È qualche cosa più che una protettrice; e una restauratrice del buon gusto. Proprio quest’anno, nel febbrajo, in casa sua, per sua cura, sono stati eseguiti due Quintetti, un Quartetto e un Trio del Boccherini e un Quartetto del Cherubini: musica quasi in tutto dimenticata, ma ammirabile e sempre giovine. Gli Adagio e i Minuetti del Boccherini sono d’una freschezza deliziosa; i Finali soltanto mi pajono un po’ invecchiati. Voi, certo, conoscete qualche cosa di lui...
― Mi ricordo d’aver sentito un Quintetto quattro o cinque anni fa, al Conservatorio di Bruxelles; e mi parve magnifico, e poi nuovissimo, pieno d’episodii inaspettati. Mi ricordo bene che in alcune parti il Quintetto, per l’uso dell’uni-