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n’avrebbe certo un gran dolore. Delfina è l’adorata...
Il marito taceva: doveva essere di natura taciturno. Di mezza taglia, un poco obeso, un po’ calvo, aveva la pelle d’un color singolare, d’un pallore tra verdognolo e violaceo, su cui il bianco dell’occhio nei movimenti dello sguardo spiccava come quel d’un occhio di smalto in certe teste di bronzo antiche. I baffi, neri, duri ed egualmente tagliati come i peli d’una spazzola, ombravano una cruda bocca sardonica. Egli pareva un uomo tutto irrigato di bile. Poteva aver quarant’anni o poco più. Nella sua persona era qualche cosa di ibrido e di subdolo, che non isfuggiva a un osservatore; era quell’indefinibile aspetto di viziosità che portano in loro le generazioni provenienti da un miscuglio di razze imbastardite, crescenti nella turbolenza.
― Guarda, Delfina, gli aranci tutti fioriti! ― esclamò Donna Maria stendendo la mano al passaggio per cogliere un rametto.
La strada infatti saliva tra due boschi d’agrumi, in vicinanza di Schifanoja. Le piante eran così alte che facevano ombra. Un vento marino alitava e sospirava nell’ombra, carico d’un profumo che si poteva quasi bevere a sorsi come un’acqua refrigerante.
Delfina aveva posate le ginocchia sul sedile e si sporgeva fuor della carrozza per afferrare i rami. La madre la cingeva con un braccio per reggerla.
― Bada! Bada! Puoi cadere. Aspetta un poco ch’io mi tolga il velo ― ella disse. ― Scusa, Francesca; aiutami.