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guigni e maligni ardevano all’orizzonte, gittando sprazzi di sangue e d’oro sul fosco delle acque; un viluppo di nuvoli paonazzi ergevasi da’ vapori, simile a una zuffa di centauri immani sopra un vulcano in fiamme; e per quella luce tragica un corteo funebre di vele triangolari nereggiava su l’ultimo limite. Erano vele d’una tinta indescrivibile, sinistre come le insegne della morte; segnate di croci e di figure tenebrose; parevano vele di navigli che portassero cadaveri di appestati a una qualche maledetta isola popolata di avvoltoi famelici. Un senso umano di terrore e di dolore incombeva su quel mare, un accasciamento d’agonia gravava su quell’aria. Il fiotto sgorgante dalle ferite de’ mostri azzuffati non restava mai, anzi cresceva in fiumi che arrossavano le acque per tutto lo spazio, sino alla sponda, facendosi qua e là violaceo e verdastro come per corruzione. Di tratto in tratto il viluppo crollava, i corpi si deformavano o si squarciavano, lembi sanguinosi pendevano giù dal cratere o sparivano inghiottiti dall’abisso. Poi, dopo il gran crollo, rigenerati, i giganti balzavan di nuovo alla lotta, più atroci; il cumulo si ricomponeva, più enorme; e ricominciava la strage, più rossa, finchè i combattenti rimanevan esangui tra la cenere del crepuscolo, esanimi, disfatti, sul vulcano semispento.

Pareva un episodio d’una qualche titanomachia primitiva, uno spettacolo eroico, visto, a traverso un lungo ordine di età, nel cielo della favola. Andrea, con l’animo sospeso, seguiva tutte le vicende. Abituato alle tranquille discese