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rito si stendeva, si svolgeva, si dispiegava, si sollevava dolcemente come l’erba premuta in su’ sentieri; diveniva infine verace, ingenuo, originale, libero, aperto alla pura conoscenza, disposto alla pura contemplazione; attirava in sè la cose, le concepiva come modalità del suo proprio essere, come forme della sua propria esistenza; si sentiva infine penetrato dalla verità che proclamava l’Oupanischad dei Veda: “Hæ omnes creaturæ in totum ego sum, et præter me aliud ens non est.„ Il gran soffio d’idealità che esalano i libri sacri indiani, studiati e amati un tempo, pareva lo sollevasse. E tornava a risplendergli singolarmente la formula sanscrita, chiamata Mahavakya cioè la Gran Parola: “TAT TWAM ASI„; che significa: “Questa cosa vivente, sei tu.

Erano i giorni ultimi di agosto. Una quiete estatica teneva il mare; le acque avean tal transparenza che ripetevan con perfetta esattezza qualunque imagine; l’estrema linea delle acque perdevasi nel cielo così che i due elementi parevano un elemento unico, impalpabile, innaturale. Il vasto anfiteatro dei colli, popolato d’olivi, d’aranci, di pini, di tutte le più nobili forme della vegetazione italica, abbracciando quel silenzio, non era più una moltitudine di cose ma una cosa unica, sotto il comune sole.

Il giovine, disteso all’ombra o addossato a un tronco o seduto su una pietra, credeva di sentire in sè medesimo scorrere il fiume del tempo; con una specie di tranquillità catalettica, credeva sentir vivere nel suo petto l’intero mondo;