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carnagione, composta di luce, di rose e di latte, che han soltanto i babies delle grandi famiglie inglesi nelle tele del Reynolds, del Gainsborough e del Lawrences; la marchesa Du Deffand, una bellezza del Direttorio, una Récamier, dal lungo e puro ovale, dal collo di cigno, dalle mammelle saglienti, dalle braccia bacchiche; Donna Isotta Cellesi, la dama delli smeraldi, che volgeva con una lenta maestà divina la sua testa d’imperatrice tra lo scintillio delle enormi gemme ereditarie; la principessa Kalliwoda, la dama senza gioielli, che nella fragilità delle sue forme chiudeva nervi d’acciajo per il piacere e su la cerea delicatezza dei suoi lineamenti apriva due voraci occhi leonini, li occhi d’uno Scita.

Ciascuno di questi amori portò a lui una degradazione novella; ciascuno l’inebriò d’una cattiva ebrezza, senza appagarlo; ciascuno gli insegnò una qualche particolarità e sottilità del vizio a lui ancora ignota. Egli aveva in sè i germi di tutte le infezioni. Corrompendosi, corrompeva. La frode gli invescava l’anima, come d’una qualche materia viscida e fredda che ogni giorno divenisse più tenace. Il pervertimento de’ sensi gli faceva ricercare e rilevare nelle sue amanti quel ch’era in loro men nobile e men puro. Una bassa curiosità lo spingeva a scieglier le donne che avevan peggior fama; un crudel gusto di contaminazione lo spingeva a sedurre le donne che avean fama migliore. Fra le braccia dell’una egli si ricordava d’una carezza dell’altra, d’un modo di voluttà appreso dall’altra. Talvolta (e fu, in ispecie, quando la notizia delle seconde nozze di Elena Muti gli