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in verità calcografo, come Luca d’Olanda. Possedeva una scienza mirabile (ch’era forse un raro senso) di tutte le minime particolarità di tempo e di grado le quali concorrono a infinitamente variare sul rame l’efficacia dell’acqua forte. Non la pratica, non la diligenza, non la intelligenza soltanto, ma specie quel natío senso quasi infallibile l’avvertiva del momento giusto, dell’attimo puntuale, in cui la corrosione giungeva a dare tal preciso valor d’ombra che nell’intenzion dell’artefice doveva avere la stampa. E nel padroneggiar così spiritualmente quell’energia bruta e quasi direi nell’infonderle uno spirito d’arte e nel sentir non so che occulta rispondenza di misura tra il battere del polso e il progressivo mordere dell’acido, era il suo inebriante orgoglio, la sua tormentosa gioia.
Pareva ad Elena esser deificata dall’amante, come l’Isotta riminese nelle indistruttibili medaglie che Sigismondo Malatesta fece coniare in gloria di lei.
Ma ella, ne’ giorni appunto in cui Andrea attendeva all’opera, diveniva triste e taciturna e sospirosa, quasi l’occupasse un’interna angoscia. Aveva, d’improvviso, effusioni di tenerezza così struggenti, miste di lacrime e di singhiozzi mal frenati, che il giovine rimaneva attonito, in sospetto, senza comprendere.
Una sera, tornavano a cavallo, dall’Aventino, giù per la via di Santa Sabina, avendo ancora negli occhi la gran visione dei palazzi imperiali incendiati dal tramonto, rossi di fiamma tra i cipressi nerastri che penetrava una polvere