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vaso, mentre dalla parte opposta balzava il giovine sagittario Bellerofonte con l’arco teso contro il mostro nato di Tifone. Li ornamenti della base e dell’orlo erano d’una rara leggiadria. L’interno era dorato, come quel d’un ciborio. Il metallo era sonoro come uno strumento. Il peso era di trecento libbre. La forma tutta quanta era armoniosa.

Spesso, per capriccio, Elena Muti prendeva in quella tazza il suo bagno mattutino. Ella vi si poteva bene immergere, se non distendere, con tutta la persona; e nulla, in verità, eguagliava la suprema grazia di quel corpo raccolto nell’acqua che la doratura tingeva d’un indescrivibile tenuità di riflessi, poichè il metallo non era argento ancora e l’oro moriva.

Invaghito di tre forme diversamente eleganti, cioè della donna, della tazza e del veltro, l’acquafortista trovò una composizion di linee bellissima. La donna, ignuda, in piedi, entro il bacino, appoggiandosi con una mano su la sporgenza della Chimera e con l’altra su quella di Bellerofonte, protendevasi innanzi ad irridere il cane che, piegato in arco su le zampe anteriori abbassate e su le posteriori diritte, a simiglianza di un felino quando spicca il salto, ergeva verso di lei il muso lungo e sottile come quel d’un luccio, argutamente.

Non mai Andrea Sperelli aveva con più ardore goduta e sofferta l’intenta ansietà dell’artefice in vigilare l’azion dell’acido cieca e irreparabile; non mai aveva con più ardore acuita la pazienza nella sottilissima opera della punta secca su le asprezze dei passaggi. Egli era nato,