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santemente, per riprodurre?„ Il pensiero di dar gioia all’amante, con un verso numeroso o con una linea nobile, lo spinse all’opera. Egli scrisse La Simona; e fece le due acqueforti, dello Zodiaco e della Tazza d’Alessandro.
Eleggeva, nell’esercizio dell’arte, gli strumenti difficili, esatti, perfetti, incorruttibili: la metrica e l’incisione; e intendeva proseguire e rinnovare le forme tradizionali italiane, con severità, riallacciandosi ai poeti dello stil novo e ai pittori che precorrono il Rinascimento. Il suo spirito era essenzialmente formale. Più che il pensiero, amava l’espressione. I suoi saggi letterarii erano esercizii, giuochi, studii, ricerche, esperimenti tecnici, curiosità. Egli pensava, con Enrico Taine, fosse più difficile compor sei versi belli che vincere una battaglia in campo. La sua Favola d’Ermafrodito imitava nella struttura la Favola di Orfeo del Poliziano; ed aveva strofe di straordinaria squisitezza, potenza e musicalità specialmente nei cori cantati da mostri di duplice natura: dai Centauri, dalle Sirene e dalle Sfingi. Questa sua nuova tragedia, La Simona, di breve misura, aveva un sapor singolarissimo. Sebbene rimata negli antichi modi toscani, pareva immaginata da un poeta inglese del secolo scorso d’Elisabetta, sopra una novella del Decamerone; chiudeva in sè qualche parte del dolce e strano incanto ch’è in certi drammi minori di Guglielmo Shakespeare.
Il poeta segnò così la sua opera, nel frontespizio dell’Esemplare Unico: A. S. CALCOGRAPHUS AQUA FORTI SIBI TIBI FECIT.
Il rame l’attraeva più della carta; l’acido ni-