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cizio e lo sviluppo della più nobile tra le facoltà dell’intelletto: debbo cioè l’abitudine dell’osservazione e debbo, in ispecie, il metodo. Io sono ora, come te, convinto che c’è per noi un solo oggetto di studii: la Vita.

Siamo, in verità, assai lontani dal tempo in cui, mentre tu nella galleria Sciarra eri intento a penetrare i segreti del Vinci e di Tiziano, io ti rivolgeva un saluto di rime sospiranti


all’Ideale che non ha tramonti,
alla Bellezza che non sa dolori!



Ben, però, un voto di quel tempo s’è compiuto. Siam tornati insieme alla dolce patria, alla tua ”vasta casa.„ Non gli arazzi medicei pendono alle pareti, nè convengono dame ai nostri decameroni, nè i coppieri e i levrieri di Paolo Veronese girano intorno alle mense, nè i frutti soprannaturali empiono i vasellami che Galeazzo Maria Sforza ordinò a Maffeo di Clivate. Il nostro desiderio è men superbo: e il nostro vivere è più primitivo, forse anche più omerico e più eroico se valgono i pasti lungo il risonante mare, degni d’Ajace, che interrompono i digiuni laboriosi.

Sorrido quando penso che questo libro, nel quale io studio, con tristezza, tanta corruzione e tanta depravazione e tante sottilità e falsità e crudeltà vane, è stato scritto in mezzo alla semplice e serena pace della tua casa, fra gli ultimi stornelli della messe e le prime pastorali della neve, mentre insieme con le mie pagine cresceva la cara vita del tuo figliuolo.