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gannatrici, che non dai tiri continuati. Percorsero sveltamente, per tre camminamenti paralleli, in fila indiana, il mezzo chilometro che li separava dalla prima linea. Nel silenzio, qualche colpo di tosse involontario, seguito da mozziconi di «moccoli» toscani o romani, furono le uniche fratture che gli ufficiali repressero con qualche cazzotto nelle reni ai rumorosi.
Nelle prime ombre della sera, i fanti si diedero il cambio nella trincea, plotone per plotone, fra strette di mano silenziose, qualche «finalmente», qualche «buon riposo» e qualche «buona fortuna» sottovoce, tutto a schiena curva, mentre elmetti e fucili talvolta incontravansi con un leggero tintinnìo metallico che suscitava un «porco can!», un «te pòssino!», un «boja d’un mond lêder», e poi, fra urti di corpi e di tascapani e di giberne che la strettura dello spazio rendeva inevitabili, i vecchi inquilini sfilaron via con meno fretta dei nuovi che arrivavano con l’ansia della nuova abitazione, e disparvero nella notte, ombre inghiottite dall’ombra, fra un vago brontolio di scarpe chiodate sui sassi del Carso.
In quel momento, il soldato che sulla strada gli aveva riempito d’acqua la borraccia, gli si avvicinò toccandolo col gomito.
— Hai ancora sete?