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due giganti lontani che si scaraventavano a vicenda macigni di fuoco urlandosi insolenze mortali.
L’indomani all’alba ripresero la marcia verso Lucinico, e sulla strada li colpì per la prima volta un rumore nuovo: come l’andare di un treno in salita che faticosamente cercasse di aprirsi un cammino. «Che sarà mai questo?» pensava Franco. La strada fatta evidentemente dal nostro Genio, aveva tutt’attorno boschi distrutti dalle battaglie passate, e le calvizie dei bassi colli avrebbe lasciato la strada quasi allo scoperto, se non si fosse provveduto a coprirla agli sguardi nemici con una siepe di stuoie a cortina che rendeva invisibile ogni movimento dei nostri. A una svolta, Franco ebbe la spiegazione di quell’ansare asmatico e ossessionante che da alcuni minuti lo teneva attento: lungo la siepe di stuoie, procedevano con pesante lentezza verso la linea tre cannoni da 152, rimorchiati da una formidabile trattrice a pattini, ogni passo della quale s’imprimeva sul suolo col ritmo meccanico di un mostro d’acciaio dalle zampe elefantiache. Così i tre cannoni non visti dal nemico, avanzavano, avanzavano, lenti, pesanti, minacciosi, pronti a riabilitare in ruinosa musica di morte quel lento faticoso acciabattìo di pachidermi in salita.