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no voler attingere il diapason del supremo scatenamento.
Quel centro di vita-morte fluttuante fra terra e cielo in mezzo alle ombre notturne che parevano circondarlo come un’anfiteatro di spettacoli al buio circonda il «ring» illuminato nelle notti sportive, diede a Franco la sensazione di una gran festa magica, e gli fece pensare a una gran sala da ballo per Valchirie ed Elfi, crivellata di luci danzanti, a un’adunata di spiriti pazzi sulla vetta ubriaca di luna del Kilimanjaro, polo bianco dell’Africa, a una gara-delirio di skjatori sulla bocca di un vulcano polare: tutto insomma gli parve fuorchè una notte di guerra, perchè se quella era la guerra (e non quel livido pantano sinistro e mortifero, senza luci e senza colori, che gli avevano descritto) egli la trovava prodigiosa di bellezza inedita.
A un tratto s’accorse che l’ufficiale che gli camminava davanti, tendeva la mano sulla fronte, sforzandosi di vedere qualcosa, sulla destra. Gli domandò che cosa guardasse. C’era, anche se invisibile, c’era il grande, maestoso mostruoso fiume rosso, alimentatore del mare con sangue di soldati morti per la Patria, insaziabile emorragia serpeggiante fra le colline del Carso come un cobra fra cuscini voluttuosi; c’era, e se ne avvertiva