un’orgia di uragani artificiali che invase la fantasia e la travolse con sè in facile baldoria. Gli parve di trovarsi bene, con tutti i brividi del pericolo, in quel «piedigrotta» folleggiante di frenesie policrome, sinfonicamente strumentata. A un certo punto, il grande sabba di luci e rumori accavallantisi gli apparve come irresistibile splendore. La sera era scesa, e qualcosa di pazzamente lunare accorreva a inseguirla. Tutto l’orizzonte avanti a sè pareva convergere in un gran piazzale aereo, quasi un immenso dinamico lago di luce, abbagliato dal convergere di cento stazioni fotoelettriche e dal guizzare di mille razzi bianchi azzurri verdi rossi, svelti e maligni come diavoletti che sporgessero un istante le loro testine incandescenti per curiosare nel campo nemico, e poi vi cadessero dentro spegnendosi, con un guizzo rapido, un dopo l’altro, interminabili, inesauribili. E il lago di luce bianca era squartato ogni attimo da soli rossi esplodenti come rossi d’uovo miniati in una grande anfora di latte. Tutto ciò accompagnava l’orchestra tambureggiante dei rumori, voci dei draghi infuriati, voci delle caverne arroventate vomitanti fuoco, pietre, ferraglie, l’acqua rossa dell’Isonzo, in un furioso crescendo fatto dell’innumere universalità atomica, delle moltitudini di elementi concreti che pareva-