primo rancio, in autocarro, su per la strada di Villesse, e, dopo aver attraversato Gradisca, si dirigevano per Farra e S. Lorenzo, verso Lucinicco. I canti delle maschie voci arrocate dal sole e dalla polvere, sulla bianca via furlana spingentesi dritta e decisa in direzione dell’Isonzo senza mai rasentarlo come chi voglia evitare un desiderato e temutissimo incontro, frustavano le siepi in quel pomeriggio d’Ottobre quasi a svegliarne la vita incupita dal rombo lontano e vicino del cannone. Sembrava, quel rombo, un richiamo, una voce profondata nel sottosuolo, che invocasse quelle giovinezze come un cibo di drago affamato, e l’impeto dei canti sottolineati dal ritmo dei motori, accompagnamento orchestrale ininterrotto, pareva rispondere con una sfidante protesta al minaccioso richiamo del mostro. Alla sensibilità di Franco quegli echi di rombi inseguentisi nelle convalli, lungo l’azzurro fiume invisibile, fino alla riva intravista del mare, assumevano figure e voci e movimenti di miti mostruosi, di elementi antropomorfici in rissa tra loro, qualcosa come la insurrezione delle forze brute scatenatesi a parteggiar per gli uomini, da una parte e dall’altra dei due fronti, in una rissa paurosa di montagne contro fiumi, di mari contro montagne, e di caverne spalancate una contro l’altra come boc-