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Ma il capo è buono e mi dice: Uh, Pennadoro! Ho scoperto una pianta per te. È dura di cent’anni. Come va la scure? Alla! alla! stavolta mette il primo dente. Il primo colpo, qua. Sentirai che carne!

La mia scure è bella, col manico lungo di rovere, e un occhio quadrato. Ride freddamente come il ghiaccio. È svogliata e pigra, piena di disprezzo. Ama starsene affondata nell’erba guazzosa e contemplare il cielo. Qualche volta si diverte di giocar con le teste dei cespugli e i getti spumosi del frassino. Allora sorride come una bimba della saliva amarognola che le sgocciola sulle guance. Ma più spesso è triste e tetra.

Ah, ma quando si scalda come dà dentro! Dà dentro come una bestia infoiata. Piomba, piccola e chiara, senza respiro, e han! come un tuono che scoppi, è incassata nella carne dell’albero. Tutta l’aria attorno ne vibra, e i fringuelli rompono la nota. Si disficca a stratte per assaporar bene la ferita, si libra a dritta ala per un istante, immobile, e han! è dentro all’ossa. La quercia sussulta drittamente, senza piegarsi, e accarezza con le frondi basse i quercioletti giovani, attorno per non impaurirli, come se solo il dolce vento del mare la movesse. La grande quercia è silenziosa come una madre che muore.

Ma la scure canta. La scure s’alza, s’abbassa e canta. Ride rutilante, rossa. È come pazza. Io n’ho paura. Non vedo che questo lampo davanti che fischia e scroscia. Han! han! Non sento più le mani. Il lampo mi sbatte contro l’albero, e mi ribatte via! Han! Piccola mano d’acciaio, distruggiamo la foresta!