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di gemme incuffiate di peluria argentea, come strani fiori. Da una stalla aperta mugghia il muso d’una vacca, e si lecca dentro le larghe froge. R. R. Telefoni: 50 centesimi e sono a Firenze. Eppure cammino urlando sulla neve, e non c’è nessuno che si fermi a guardare il pazzo. Tutt’è bello. Capisco la riforma della scuola media e il cipresso stronco sotto il peso della neve, che giace infissato nella neve attraverso la strada e m’obbliga a un salto allegro, fermati sul petto i lembi della mantella. Ed è buono il salame, il burro, il tè, il pane casalingo d’una settimana dell’osteria di Vallombrosa.
Qui è impossibile sian mai venute dame strascicanti lunghe gonnelle per campi ben pettinati e rasati, nè ministri hanno mai giocato tennis in solino: molti alberghi attendono di spalancarsi: ma io non credo. Però potrei pigliare a sassi quelle due aquile insaccate in stracci gialli, appollaiate col pernio sui pilastri d’un portone.
Ma su, che al Secchieta c’è neve assolutamente intatta. Nessuna traccia sul dorso del monte: dove sono i giovani italiani? Aspettano che si bandiscano domenicate invernali con schi e pattini e signorine. Scrivo con il chiodo dell’alpenstoc le lettere Voce nella neve. Propongo che la festa vociana sia un’annua salita al Secchieta, di febbraio, Lupercalia. Ah, ah, in questo momento qualcuno esce dalla redazione d’un cotidiano e va a dormire! Venite a bever l’alba sui monti!
E basta: il disotto sparisce. Non c’è che una cosa, alta, non vista, che bisogna raggiungere. Nessun’immagine. I rami sono rami irrigiditi che scattano sul viso se ti sfuggono di mano. Picchia il tacco nella neve per farti