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sciato, striscio a carponi; non salvo nessuno ma corro alla prossima stazione per avvertire, con calma, dell’accaduto. ― Ha la mano insanguinata ― mi dice premuroso il capostazione. Io la guardo, estraggo il fazzoletto e la fascio. Poi, per favore, domando al capostazione di permettermi inviare un dispaccio al mio giornale.

― Per dove? ― si spazientì il bigliettinaio.

― Per Milano. E pensai: mi presento al Corriere della Sera.

Il treno andava a Vienna, e il bigliettinaio dicendomelo sorrise. Tornai a casa deciso di farmi giornalista.


Il Piccolo mi accettò a cento corone il mese: orario da mezzogiorno alle sedici, e dalle venti alle tre.

La prima volta che andai a intervistare un’attrice non ricordo più se era la Bellincioni o la Tina di Lorenzo ― pensavo mettendo il pollice nel taglio ascellare del gilè bianco: Rappresentazione d’una novità che non conosco; intervista antr’act; caffè neri; accendo un sigaro; in redazione: è il tocco. Ordino in pacchetto regolare le lunghe cartelle verdognole, le numero: devo scrivere due articoli: la recensione della novità e l’intervista: in un’ora e mezza. (L’intervista potevo scriverla la mattina dopo; ma mi piaceva aumentare il lavoro febbrile). Bene. Che dirò a lei? È bella. E il Piccolo è il giornale più diffuso di Trieste: io, in questo momento, ne sono il critico teatrale.

Una folata d’immagini come al ritorno delle rondini: ero accanto a un bosco autunnale, e soffiava la bora, e le