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di legnami. Cosicchè egli fu sempre per quasi tutti i parenti uno screanzato mistero da stare in guardia, un uomo presuntuoso e senza giudizio. Lo sfuggivano seccati; e se mai dovevano parlare con lui per convenienza, l’ascoltavano come s’ascolta la storiella mille volte ripetuta del vecchio parroco di campagna, e guardandolo di sfuggita in viso per presentire che nuovo tiro meditasse. Pure era ottimo e calmo, benchè anima di passioni. Era alto, e tarchiato di petto; il viso largo, a tratti grossi, senza delicatezze, ma gli occhi come quelli di mamma, e la barba bionda chiara, ingiallita dal fumo. Camminava con il passo delle guide. Parlava lentamente, con voce bassa, profonda, negli occhi una gioia quasi puerile per ciò che raccontava, ma d’una puerilità pregna di dolore e disperazione. Non aveva che la famiglia; e la moglie gli era morta; una figlia gli s’era uccisa; un’altra aveva abbandonato il marito e s’era fatta canzonettista. Non piangeva; ma quando, seduto nel nostro salotto, tossiva, la corda più bassa dell’arpa di mamma dava una vibrazione lunga, terribile. Era stanco e quasi sfinito. Mamma gli diceva: ― Eh, su, coraggio, ti xe ancora come un giovinoto! ― ed egli sorrideva: ― Sì, son ancora forte; ma ― e sollevava il braccio destro nella posizione in cui si spiana lo schioppo, e il braccio gli tremava benchè egli alzandolo aveva sperato che gli stesse fermo. ― Ma le gambe le xe ancora bone ― concludeva. E ancora, per la terza o quarta volta, si rimise, a cinquant’anni, e andava a caccia, e progettava di costruirsi una casetta in carso, vicino a Gropada, su una terrazza calcarea dominante un