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petali sanguinei e bianchi al vento vaporante, mentre i calici ingrossano e s’insolidano e le farfalle rompono il bozzolo filamentoso e le guaine dei nuovi germogli si ripiegano secche e scolorite. Ancora ondula qualche fraschetta gommosa e rossiccia, e avvolta dall’esuberanza dell’erba ancora qualche viola impallidisce negli umidi nascondigli: lievi parole infantili che tornano sulla bocca della donna che ha partorito.

Io mi sdraio sotto un rovere e guardo svolettare tra le foglie mille insettucci rosso turchini, in amore. Tutta l’aria sul mio capo è piena dei loro brevi svoli. Alcuno cade sfinito, si agguanta al filo d’erba inarcato e drizza le sue antenne, stupefatto. Per il tronco gropposo scende e sale la doppia carovana delle formiche; dall’erba sbalzano sui miei vestiti esili puntolini neri come cicale minutissime. E mi slungo più fondo in questa forte erba fiorita, e sono pieno di dolore e di morte.

Sta quieto. Il cielo è chiaro, come dopo un’acquata. Nel turchino del cielo lo sguardo si riposa calmamente, come nella distesa del mare. Veleggia un cirro bianco tremolando. Gli orli delle foglie contro il sole lameggiano d’argento. Riposa. Il vento che vien da lontano ti porta un buon sogno se tu stai fermo e lentamente t’assopisci. Reclina il capo sulla terra. Ora ti giunge un suono tranquillo di campana. Vicino è la patria.

No, non posso dormire. Le braccia dormono, abbandonate lungo i fianchi, gli occhi dormono: tutto il corpo e l’anima smania verso il ristoro del sonno: ma una, una cosa veglia che nessuna nenia di mamma addormenta e l’acqua che a goccia a goccia fluisce vicina non placa, e