insorgeva con impeti belluini, mordeva e dilaniava quelle carni esacerbate dalle mortificazioni. Ed erano battaglie spaventose che lasciavano affranto, anche se vittorioso, l’atleta di Cristo. Oh quante volte, scriveva san Gerolamo alla vergine Eustochia, essendo io nel deserto, in quella vasta solitudine arsa dal sole, che porge ai monaci orrenda abitazione, immaginava d’essere tra le delizie di Roma! Sedeva solo, piena l’anima di amarezza, vestito di turpe sacco, e fatto nelle carni simile ad un Etiope. Non passava giorno senza lacrime, senza gemiti, e quando mi vinceva, mio malgrado, il sonno, m’era letto la nuda terra. Nulla dico del mangiare e del bere, essendochè i monaci, anche ammalati, non bevono se non acqua, e stimano lussuria ogni vivanda cucinata. E quell’io, che per timor dell’inferno m’era dannato a tal vita, e a non avere altra compagnia che di scorpioni e di fiere, spesso m’immaginava d’essere in mezzo a schiere di fanciulle danzanti. Il mio volto era fatto pallido dai digiuni, ma nel frigido corpo l’anima ardeva di desiderii, e nell’uomo, quanto alla carne già morto, divam-