essa può anche mancare. Ciò che si chiama un «motivo»: altro errore. Non è che un superficiale fenomeno della coscienza, un lato dell’azione che nasconde gli antecedenti dell’azione molto meglio che non li rappresenti. E se noi volessimo parlare dell’io! L’io è diventato una leggenda, una finzione, un gioco di parole: ciò ha completamente cessato di pensare, di sentire e di volere!... Cosa ne consegue? Non vi sono affatto cause intellettuali! Tutto il preteso empirismo inventato per ciò se n’è andato al diavolo! Ecco ciò che ne consegue. E noi avevamo fatto un amabile abuso di questo «empirismo», partendo da ciò noi avevamo creato il mondo, come mondo delle cause, come mondo della volontà, come mondo degli spiriti. È là che la più antica psicologia, quella che ha durato più lungamente, è stata all’opera, non ha fatto assolutamente altra cosa: ogni avvenimento le era azione, ogni azione conseguenza di una volontà; il mondo divenne per essa una molteplicità di principii agenti, un principio agente (un «soggetto») sostituentesi ad ogni avvenimento. L’uomo ha proiettato al difuori di sè i suoi tre «fatti interiori», ciò in cui fermamente credeva, la volontà, lo spirito, l’io, — egli dedusse d’apprima la nozione dell’essere dalla nozione dell’io, ha supposto le «cose» come esistenti a sua immagine, secondo la sua nozione dell’io in tanto che causa. Cosa c’è di sorprendente se più egli non ha fatto che ritrovare sempre, nelle cose, ciò ch’egli aveva in esse messo? La cosa essa stessa, per ripeterlo ancora, la nozione della cosa, non è che un riflesso della credenza all’io in tanto che causa... Ed anche il