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IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI


5.

— Stabiliamo invece in quale maniera differente noi (— dico noi per garbatezza —) concepiamo il problema dell’errore e dell’apparenza. Una volta si consideravano il cambiamento, la variazione, il divenire in generale, come delle prove dell’apparenza, come un segno che doveva esservi qualche cosa che ci turba. Oggi, al contrario, vediamo esattamente tanto lontano che il pregiudizio della ragione ci forza a fissare l’unità, l’identità, la durata, la sostanza, la causa, la realtà, l’essere, che ci incastra in qualche modo nell’errore, che ci necessita l’errore; malgrado che, in seguito ad una severa verifica, noi siamo certi che l’errore si trova là. Non altrimenti avviene per il movimento degli astri: là sono i nostri occhi i continui difensori dell’errore, mentre che qui è il nostro linguaggio che pérora incessantemente per esso. Il linguaggio appartiene, per la sua origine, all’epoca delle forme più rudimentali della psicologia: noi entriamo in un grossolano feticismo se prendiamo coscienza delle prime condizioni della metafisica del linguaggio, cioè della ragione. Noi vediamo allora dovunque delle azioni e delle cose agenti: noi crediamo alla volontà in tanto che causa in generale: noi crediamo all’«io», all’io in tanto che essere, all’io in tanto che sostanza, e noi proiettiamo la credenza, la sostanza dell’io su tutte le cose — con ciò noi creiamo la concezione delle «cose»... Dappertutto l’essere è immaginato come causa, sostituito alla causa; dalla


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