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E lo stesso terren teco si dolga,
Senza sugo vital, macero e strutto,
Sol tre nappi ne gitta a la fortuna,
E nulla più: tanto a tal forza basta.
Tu ’l caporal sarai de la squadriglia,
E solo solo, col tuo braccio in moto
L’impugnata semente ognor buttando,
Farai che chi non ti conosca, e ’l tuo
Mestier non sappia, e da lontan ti veggia
Con una schiera armata, che ti siegue
Dopo le spalle, un marescial ti creda,
O un ingegner di guerra, che cruccioso,
Allor allor attacchi, assalti, e mine,
E breccie, e scorrerie mova, e disponga
Sul campo marziale, ove comanda.
Ma se tal non sei tu, sei però duce
In opra tal, che assai studio richiede,
E gran fatica a ben condurla a fine.
Anche tu rompi terra, anche tu assalti,
E mine formi, bastioni, e fosse,
E ordinanze, e trincee, e batterie
Per soggiogar l’infruttuoso campo,
Che in brieve tempo al tuo voler s’arrenda;
E sono l’arme tue forse più fide,
E più sicure, che arcobugio, o spada.
Nel così far, serba il tuo passo andante,
Ma sempre a una stessissima misura,
Che tanto carchi tu, quant’altri scarca:
Vo’ dir, che tanto di terren sementi,
Quanto zappando può finir la turba,
Che in apparecchio di battaglia siegue.
Questa per linea egual disposta e stesa,
E sempre ritta con la marra in mano,