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Allor la terra come abbrustolita
Rimanda questo fime, e inferma giace,
Nè frutto ti può dar da lì a molt’anni.
Altro letame have l’industria umana
155Scoperto, e ’l tragge seminando fave
Nel campo, o pur la ruccola silvestre,
Che ruchetta fra noi suole appellarsi.
Queste nate e cresciute, con l’aratro,
Che tutte a capitombolo rovescia,
160Trovan la tomba ov’ebber già la culla,
Dentro sepolte al lor terren nativo,
E in novella putredine converse,
Con quelle foglie lor pingui, e polpute.
Ma stabbio d’erbe, debil sempre, e floscio,
165Si giudicò da agricoltor perito,
Quando strame di giunco egli non sia,
Nato in val peschereccia, o basso prato,
Come da noi Musotta, e Guazzalocca,
Col qual, fatto che avrai letto ai giuvenchi,
170E macero che sia, ne farai strato
In sul tuo campicel per fecondarlo.
Piuttosto (e la ragion più al vero attiensi)
L’ugne piuttosto d’animai quadrupedi
Macere e trite qua e là gittate
175Pel canapajo tuo gioveran molto.
E gioverà ’l cojaccio, o ’l pelo, o lana
In minuti ritagli, o limatura
Di corna, o cenci d’ogni stampa misti,
Come i centoni de’ pitocchi astuti,
180Che a brani cadon, senza fil che tenga.
Tutto, purchè sia putrido, e ben trito,
Tutto giova a ingrassar, come conviensi,
La terra sì, che pingue frutto renda: