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IL BUON CUORE 361


mio costume mi scambiava per l’Augusta Regina del Cielo. Tutti risero, ed io per la prima, ma sentii in cuore una gran dolcezza: oh, avessi davvero potuto degnamente rappresentare al letto di quei feriti la Celeste Consolatrice! Una preghiera, un voto mi sgorgò dall’anima, e fiduciosa entrai nelle bianche corsie, che accolgono tanti dolori.

La prima impressione è meno penosa di quanto si potrebbe temere: gli occhi che vi guardano sono vivaci, le labbra sorridenti, il volto non tradisce l’interno affanno, ma esprime piuttosto la fiducia nella guarigione e il nobile orgoglio di aver compiuto il proprio dovere. Non si vantano di aver fatto grandi cose; raccontano con molta semplicità come siano stati feriti; a quali combattimenti abbiano preso parte; da quanti mesi si trovassero al fronte e come sperino di ritornarvi ancora presto. — Come state? chiedo ad uno. — Bene, mi risponde con mia sorpresa; — ma dove siete ferito? — Alle ginocchia; una granata mi ha spezzato l’osso dell’articolazione; ne avrò per tre o quattro mesi. E diceva di star bene! Un giovane volontario diciottenne -- un viso• di fanciulla — mi confida: Se potessi alzarmi, sarei felice; sono ottanta giorni che mi trovo a letto; la ferita non si chiude e il medico non vuole che mi strapazzi; ma mi pare che se potessi passeggiare un po’ anch’io come gli altri, sarei bell’e guarito. Un altro, un richiamato, che aveva il ritratto della moglie e dei figli di fianco al suo letto e di tanto in tanto lo guardava con amorosa compiacenza, si doleva seriamente di essere condannato all’inazione, quando era così vivo ancora in lui il desiderio di combattere per la patria. Questo era un eroe, un alpino, che aveva preso parte ai primi combattimenti nel Cadore, e al fatidico grido: «Avanti Savoia!» aveva guidato la sua compagnia alla vittoria, contro un nemico assai numeroso; questo episodio gli era rimasto tanto impresso nell’anima, che al momento di estrargli un proiettile dalla gamba ferita, egli, sotto l’azione del cloroformio, aveva ancora gridato: Avanti Savoia! con grande commozione dei medici che l’assistevano. Ripeto che sopra tutto m’impressionava la loro semplicità; se anche si fossero compiaciuti e vantati di quanto avevano fatto, chi avrebbe osato meravigliarsene? Ma no, bisognava ch’io strappassi loro di bocca le parole: pareva quasi si vergognassero di parlare di sè. E quanto non avevano da raccontare! Uno era rimasto sei ore supino sulla neve, con una spalla fracassata, senza poter sollevare il capo per non essere colpito nuovamente, e quando alfine gl’infermieri avevano potuto raccoglierlo per portarlo all’ospedaletto da campo, s’accorsero che aveva i piedi congelati. Un giovinetto ventenne aveva ricevuto dieci ferite;

quando lo vidi la prima volta era cereo, esangue. Una gentile infermiera gli faceva sorseggiare qualche cucchiaio di brodo; non aveva neppur la forza di sollevare il capo dal guanciale. Ma quali risorse non ha la gioventù! Una settimana dopo gustava da solo la scodella di minestra e l’ala di pollo che la Suora gli porgeva.

Se volete vedere un lampo di gioia illuminare quei pallidi visi, chiedete loro del paese nativo e della famiglia che vi hanno lasciato, e che sperano di rivedere presto. Di dove siete? Sono zenese, risponde con dolce accento. -- Oh, quanto bella la vostra città! Ed egli annuisce modestamente, quasi quella bellezza fosse merito SUO.

Avete famiglia? Oh, sì; ci ho moglie e due bimbi; vedesse quanto sono belli, non fo per vantarmi il ragazzo è quasi alto come me. Possibile? Quanti anni ha? Ha già sette anni! Potessi far Natale a casa, sarei l’uomo più felice della terra. Non sarebbe possibile? chiedo io con voce commossa. — Ma che! Ho le due gambe spezzate, risponde col tono più naturale del mondo.

Le corsie non sono tristi: di fianco a ogni letto fiori, bandierine, ritratti, medaglie, fazzolettini variopinti e altre cosucce. Nelle corsie s’aggirano le infermiere volontarie, eleganti e graziose nel bianco costume, fregiato dello stemma della città, o del rosso emblema che le fa crociate dell’era.novella. Le dame visitatrici passano di letto in letto con soavi parole di conforto, e sorrisi materni, e piccoli doni, assai graditi da quegli eroi dall’anima fanciullesca. Cartoline illustrate, sigarette, caramelle, oggettini di toeletta, libri, giornali... tutto viene accolto con gioia e con riconoscenza. Oh, questo mi piace! Grazie, signora; lo conserverò per sua memoria, dice uno. E un altro: Non dimenticherò mai le signore milanesi, che mi hanno usato tante cortesie. — E un altro ancora: — Come sono buone queste signorine! Ci trattano proprio come fratelli; ci rifanno il letto; ci tengono’ compagnia, ci imboccano come uccelletti oliando non possiamo mangiare da soli; non avrei n• ai creduto di trovarmi così bene in un ospedale. Quanta dolcezza non scende in core a tali parole! L’Italia può ben esclamare col suo poeta: In mezzo al sangue de la mia ghirlanda Crescon le rose. dicembre 1915. MARY CAPPELLO.