Pagina:Il buon cuore - Anno XIV, n. 51 - 25 dicembre 1915.pdf/3


IL BUON CUORE 355


ste et pie vivamus» non può non riconoscere che essa è una implicita promessa di informare la vita a giustizia nelle relazioni col prossimo, a giustizia e a pietà in quelle verso Dio. Di qui forse, o dilettissimi, voi trarrete l’opportuna conferma che la regola del terziario francescano non è che il Vangelo in pratica: di qui forse dedurrete novello ardore a propagare il terzo ordine in mezzo al mondo. Ma noi ci limitiamo a proclamare un’altra volta che l’odierna professione di fede rinnovata in questa aula se onora il Terzo Ordine francescano a cui mostra sempre vivo lo spirito del suo fondatore, giova infine e potentemente al bene spirituale degli ascritti alle varie congregazioni romane. Volendo però che si accresca ognora più codesto bene spirituale, con sincero affetto di confratello a cui si congiunge la benevolenza del padre, impartiamo l’apostolica benedizione a tutti i terziari di Roma che con la voce di quelli di Ara Coeli hanno rinnovato a noi come successori di Papa Onorio la promessa di reverenza e di obbedienza. Il Santo Patriarca ci guardi benigno dal Cielo e ci ottenga di essere e dimostrarci non indegni figli di Lui». Il Santo Padre ha poi impartito la benedizione.

Sorrisi di moribondi

....Si chiuse in una smorfia di fredda ilarità. Derise la sua malattia, si burlò della morte. Era una piccola ma tragica soperchieria. Voleva spegnersi da Ferravilla, col riso innocente e amaro dell’umorista sulla vecchia bocca». Così felicemente Renato Simoni ritrasse gli ultimi giorni del grande artista; e i giornali riferirono le parole con cui questo, dal letto di morte, richiamò il sorriso sulle labbra degli accorati familiari. Questa è ben fine degna. d’un artista, e la storia nostra ne registra più esempi. Un altro uomo di teatro, di minore ma non d’ultima fama, Andrea Codebò, colto da un colpo apoppletico mentre passeggiava per le vie di Milano, fu portato all’ospedale dei Fatebenefratelli. I medici trovano il caso grave: «Se l’ammalato non sopporta questo accesso — dice uno — la è finita». Il Codebò sente, e replica: «Ma si figuri! Sopporto lei!». Pochi istanti dopo spirava (1). Pure a Milano si spegneva, il 18 giugno 1913, Leopoldo Vestri, famoso brillante a’ suoi giorni. Poco prima di morire, a quanto riferivano i giornali, vedendo entrare due signori, amici d’un suo parente, disse loro: «Ho capito: loro sono agenti teatrali venuti per scritturarmi. Mi metto a loro disposizione». (1). G. Cauda, Sulla scena e dietro le quinte, Chieri 1914, pag. 34. (2) Quindici giorni prima di morire, fu udito lamentarsi: Gran brutt segn: go voueja de lavorà! (P. Lucini, Le Dossiane, Varese 1911, p. 79).

((Come stai?» — chiedeva un amico a Carlo Porta moribondo — «Come si può stare con questo belee», rispose egli, accennando al crocifisso che teneva tra le mani. «Sto benissimo», rispondeva Giuseppe Rovani alla stessa domanda. «Come? Non hai proprio nulla che ti dia fastidio?» — «Ah, sì: l’esistenza». Furono le sue ultime parole... Pochi minuti prima, ai medici che andavano battendogli il petto colle nocche delle dita, aveva mormorato: «Ohè! m’avete preso per una scatola di tabacco?» (2). Il tratto ricorda quello d’un terzo grande milanese, il Parini. Durante la sua ultima malattia — a quanto narra il Cantù nel volume dedicato a lui (Milano 1892, p. 377) — fu visitato da due medici amici suoi, Strambio e Locatelli. «Bisogna dare il tono alla fibra», proponeva l’uno. «No — ribatteva l’altro — bisogna scemare il tono». — «A ogni modo — conchiuse il poeta del Giorno — volete farmi morire in musica». E al medico amico, Todeschini, furono rivolte le estreme parole d’un milanese d’adozione, Paolo Ferrari. «Paolo, guardami, guardami negli occhi!» andava ripetendogli quello con voce accorata — «..che sono tanto belli!» fece con un fil di voce il drammaturgo, completando il noto verso giacosiano in Una partita a scacchi. Milanese era pure, per amicizie e parentele, Massimo D’Azeglio. La sua seconda!toglie Luisa — si legge nelle Memorie di Vittorina Giorgini-Manzoni, pubblicate qualche anno fa da Matilde Schiff-Giorgini — ne era oltremodo gelosa, e con troppa ragione. Gli faceva scenate, esercitava una specie di spionaggio, che lui chiamava inquisizione di Spagna: onde era impossibile che vivessero insieme e Massimo poneva ogni cura nello scansarla. Quando a Torino lo prese l’infermità che doveva condurlo al sepolcro, Matteo Ricci telegrafò a Luisa, che giunse appena in tempo per vederlo. «Vedi Luisa — le disse egli — come al solito.... quando tu arrivi io parto». Col sorriso sul labbro si spensero quei due capi ameni che furono il Coppola del vecchio Fanfulla e il Vassallo, più famoso sotto il nome di Gandolin. Pochi minuti prima di morire, il primo dichiarò a Baldassarre Avanzini, direttore del giornale: «Caro mio, ho finito di lavorare per il carro dello Stato; sto lavorando per il carro del Municipio». Il secondo, languente per diabete, a un amico che per distrarlo gli parlava di politica e della crisi saccarifera, osservò: «Già: tutti gli zuccheri vanno giù: soltanto i miei sono sempre in rialzo». Nè mancano esempi anche tra i personaggi nostri che più propriamente si chiamano storici. Arguta e profonda a un tempo è la risposta data da Castruccio morente — secondo riferisce il Machiavelli nella vita di lui — alla moglie che gli chiedeva perchè tenesse chiusi gli occhi: «per avvezzarli». E alla moglie sua diceva Cosimo di Giovanni de’ Medici, essendo da lei richiesto perchè tacesse a lungo: «Quando andiamo in villa i preparativi per la partenza ti occupano quindici giorni; e non comprendi come io, che sto