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IL BUON CUORE 303


sano attraverso ai villaggi mettendo il panico fra i poveri abitatori del medesimo nel più fitto della notte. Vi sono degli indigeni abilissimi nella caccia dell’elefante, vecchi di 6o o 70 anni, che sono sempre nelle foreste. Vicino a noi vi è uno rinomato come cacciatore arrabbiatamente appassionato per questa caccia. Esso ha un enorme fucile, che un uomo appena porta in ispalla. Lo carica di polvere, chiodi, piombo, sassetti e ha il coraggio di affrontare gli elefanti proprio a tiro di pietra. Spara il suo fucile, tenendolo un altro uomo con lui, buttano il fucile in terrà e via a vedere cosa succede. Qualche anno fa questo tale si trovò tanto vicino all’elefante che la bestia arrivò improvvisamente ad afferrare colla proboscide sua la canna del famoso fucile. Per fortuna l’elefante non aveva potuto bene afferrare la canna, così che il coraggioso uomo ebbe tempo appena di tirare il fucile a sè, e dicendo, aspetta canaglia, primo io e poi tu, sparò, pigliando esso stesso un colpo di rinculo del fucile mastodontico, che lo rovesciò per terra all’indietro. Il colpo del calcio del fucile fu tale che il cacciatore ne porta ancora la cicatrice che mostra a chi desidera di vederla; ma il colpò della canna fu anche tale che l’elefante rovesciò istantaneamente a terra impotente a più muoversi. Un vecchio soldato del reggimento che si trova qui di guarnigione a Wau, un nero sudanese alcuni mesi sono, avendo sparato ad un elefante che uccise, si trovò improvvisamente assalito da 3 altri, 2 dei quali uccise alla distanza si può dire di arma bianca, ed il terzo ferito gli cadde addosso, per fortuna appena fratturandogli una gamba. L’animale inferocito, ormai vicino a spirare, non potendo alzarsi cercava di schiacciare il povero soldato con una delle sue enormi gambe, dopo di che fatto uno sforzo supremo diede un colpo tale al soldato con una gamba che senza volerlo se lo levò da di sotto a sè buttandolo lontano una decina di metri. Il soldato fu raccolto fuori dei sensi, ma tornato in sè la prima cosa che domandò fu se l’elefante era morto o ancora vivo. Ebbe da guardare il letto per più di due mesi quel fortunato, ma certo quella avventura non gli ha fatto passare la passione della caccia. Ma io ti vado annoiando con descrizioni e chiacchiere che non finirebbero mai. Altra volta, caro D. Angelo. Io qui me la passo benissimo. Abbiamo circa 25 ragazzi, come formanti un piccolo collegio. Questi sono tutti figli di capi di diverse tribù indigene che educati e fatti cristiani qui, porteranno poi néi loro paesi il Vangelo di Gesù Cristo. Essi fanno molto bene. Imparano e si vanno formando a sentimenti cristiani molto bene. Ho messo in piedi per divertirli ed affezionarli una piccola bandina; tutti amano molto la musica, e riescono assai bene. Ciò che manca troppo sono i mezzi. Non mi sento di

stendere la mano anche a te, perchè so che già la è magra per tutti i preti e Parroci. Forse potrai nella tua sfera di azione fare qualche cosa raccomandando quel missionario che fu nella tua parrocchia nel Dicembre del 1908. Chi sa che non si ricordino ancora! Se vi fosse qualche palpirolo da mandarmi, si può mandare per posta direttamente a noi qui. Mi scriverai con tutto comodo. Questa volta io non ho coraggio di menzionare qualche piccolo piano che ti potrebbe fare buon giuoco per aiutarci. Era mio dovere mandarti una riga dopo tanto silenzio: Godo nel sapere da casa mia e da Don Carlo che la Mamma tua a Mulierem fortem quis inveniet» sta bene (i). La figura di tua Mamma mi è sempre presente alla mente. La ricordo là in chiesa, immobile raggiante di fede, là-a spendere meglio che una religiosa di professione i minuti che le avanzavano dal lavoro. Che consolazione ho provato allora!!! Ah! la fede che potenza non è mai per il cuore umano. La saluterai tanto quella Donna forte che tanto più va attaccandosi al Signore anche qui in terra, quanto più il termine della vita si avvicina. Dirai ad essa che io mi ricordo spessissimo di Lei, e che mi raccomando tanto a qualcuna di quelle Avemarie che penetrano al cielo. A te pure mi raccomando tanto. Il Signore ti aiuti nel difficile ministero e ti consoli nelle tue fatiche. Abbracciandoti caramente resto, caro Don Angelo, Tuo aff.mo cugino. Io allegro sempre, sano come un pesce, piePS. no di da fare, senza moneta, ma pieno di coraggio; comprerei a costo di vendere le mie camicie logore ed i miei pantaloni che oginano da tutte le parti la ferrovia elettrica Milano-Varese!! I capelli van diradandosi sulla testa, ed ormai ho rinunciato a cavarmi dalla barba i peli bianchi, ma la cattiveria non diminuisce, ed il fisico non sembra accennare a deperimento precoce delle fibre della mia complessione. Se dovessi però campare come tua Mamma o come Papà Ferdinando (poverino! caterattato!) bisognerebbe che - il Signore mi facesse crescere l’erba sulla testa un’altra volta altrimenti povero me!!! Di nuovo, tante cose. Saluti agli amici, se ne trovi di quelli che mi ricordano. Ricordami a quel buon Parroco che io trovai la prima volta a Perledo con Don Carlo. Il suo nome mi è scappolato dalla memoria. Saluti tanti a... vattelapesca; quel buon pretino cui fui prefetto in Seminario. Che povera memoria! (i) La Signora Rosa Frassi Ved. Stoppani, madre di Don Angelo Parroco di Gazzada, e di Don Carlo Prevosto di Bellano, era morta da quindici giorni e già trasportata la salma al Cimitero di Lecco nella Cappella di Famiglia.