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IL BUON CUORE 311


plicità divina delle sue origini purissime, l’amore e il dolore.

Ma varcata la soglia, ogni idea di critica e di filosofia della storia, si dilegua: l’ambiente mistico che subito vi investe, non vi permette più di discutere e di riflettere; vi fa sentire, vi soggioga, vi trasporta in un mondo della fede, di cui l’aria, dentro, è satura, perchè essa da secoli vibra delle preghiere che generazioni senza numero di cristiani, venuti da ogni parte d’Europa, hanno innalzato alla Vergine; voi le sentite quasi come un’eco continua, incessante, di voci sommesse, di mormorii, di invocazioni, di lodi; è impossibile isolarsi, domandarsi chi siete e in che anno vivete: no, là dentro si scompare nella folla unica dei fedeli, che come una fiumana si riversa intorno alla vetusta effigie di Maria da epoca imprecisata, e leva ad essa gli occhi velati di lagrime nello spasimo di una afflizione, nel gaudio di una grazia conseguita, nello sfogo di un, affetto tenerissimo. Come vennero i primi? Nessuno lo sa: certo quando ancora qui non sorgeva che una rozza cappelletta, intorno alla quale si è man mano sviluppata la sontuosa basilica; e qui primamente forse è sgorgata dall’anima popolare commossa quella can• tica primitiva, cosi semplice, ma così bella, che sono le litanie; una cantica che ha attraversato i mari e i monti, che oggi si ripete in tutte le più riposte e perdute lande, ove appena il nome di Maria sia giunto: una cantica che fin le più oscure donnicciole del volgo sanno a memoria; una cantica alla quale si sono adattate le più varie armonie, e che la Chiesa ha consacrato nei suoi riti, battezzandoli nel nome di Loreto.

Inginocchiato nella augusta cameretta della Madonna, senz’aria e senza luce quasi, ove i metalli preziosi delle lampade e i marmi dell’altare gettano i loro riflessi, o meglio le loro ombre, sulle pareti affumicate, in mezzo a gente assorta nell’estasi del mistero affascinante, io rivivevo la vita dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza: e nelle mie orecchie, anzi nel mio cuore, risuonavano con una dolce ripercussione di onde armoniose i versetti tante volte uditi a pieno coro nelle chiese della mia città, come in quelle più modeste dei villaggi: le litanie si svolgevano nel fondo dell’anima mia con una spontaneità non mai provata, e mi pareva di intenderne meglio, lì dentro, la ingenua bellezza, e il senso profondo.

Mi avevano detto ad Ancona: sentirete che tanfo nella Santa Casa: è sempre così piena di contadini, meglio di contadine, che è un miracolo se uno non ci rimane soffocato. Confesso che avevo fatto il proposito di constatare se fosse vero; ma dichiaro che non me ne sono più ricordato; e aggiungo che non so come avrei potuto ricordarmene: avrei dovuto sottrarmi a quegli istanti di raccoglimento, far tacere le memorie soavi affollantesi alla mente, soffocare la preghiera sgorgante dal cuore limpida e spontanea per attivare.... il senso dell’olfatto; no: grazie a Dio e ci sono nella vita le ore in cui lo spirito prende il sopravvento, e signoreggia, ed esso disprezza allora le miserie che in
altre circostanze ci danno tanta noia; esso reclama per sè il dominio del nostro essere, lo solleva, lo avvicina al cielo; e sono allora i profumi della grazia che ci circondano, come sono le visioni caste e terse che ci allettano e ci avvincono.

La Santa Casa può dare tutto ciò a chi vi entri e vi si soffermi con senso riverente di religiosità schietta e sentita, indipendentemente dalla secolare tradizione che la consacra; questo è vero; ma è pur vero che la tradizione ha sulle masse come sui singoli individui del popolo, una grande parte nel determinare lo slancio della fede: non è lì dunque che si debba e si possa intavolare la disputa critica per sapere quanto nella tradizione ci sia di leggenda e quanto di storia: dal punto di vista della pietà popolare e della legittimità del culto il problema è già stato risolto quattrocento anni or sono dalle parole usate da Giulio II nella sua bolla lauretana; la prima in cui si trovi un cenno del racconto delle traslazioni: ut pie creditur et fama est. È quanto basta.

(Continua).

F. Meda.

SONATORE D’ORGANINO

In un sereno vespro fiorentino
a piè’ d’un colle, sotto un leccio ombroso
un vecchio sonatore d’organino
seduto vidi, solo e pensieroso.

Quando mi scorse si rizzò su a stento,
avea una gamba mozza. Là per via
trasse fuori dal logoro strumento
una tenue, soave melodia

che penetrava lene lene al core.
Pareva che un potere sovrumano,
un’occulta virtù, intenso amore
guidasser quella scarna e stanca mano,

L’anima mia oppressa e scoraggita
perchè umana passion la tormentava,
tutta fu da quel suon presa, rapita;
sentì che a Dio qualcun la richiamava.

Dal gravoso terren laccio disciolta,
alto alto sen gìa, lieve, serena,
da ineffabile pace cinta, avvolta,
lontana dal desìo e dalla pena.

Del sonator, il corpo dolorante
a un angelico spirto facea velo,
sulla terra a soffrir disceso, errante
per ricondurre i suoi fratelli al cielo.

Samarita.