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IL BUON CUORE 277


meno quando il Concilio, che si era riunito l’8 novembre 448, lo invitò ripetute volte a discolparsi. Egli, anzi, appoggiato e sospinto dal suo figlioccio, Crisafio, ciambellano dell’imperatore Teodosio II, quantunque scomunicato, cercò rafforzare il suo partito. Ottenne, così, dall’imperatore che venisse convocato un nuovo concilio generale, che doveva rivedere gli atti del precedente; e che riuscì così fazioso da meritare il nome con cui viene ricordato nella storia, di «sinodo di briganti», o «brigantaggio di Efeso».

Questo conciliabolo, aperto l’8 agosto nella chiesa di Santa Maria, ebbe a presidente Dioscoso, e per prima cosa chiamò a discolparsi i vescovi che avevano avuto parte alla condanna di Eutiche. Poichè era questo lo scope: proclamare il trionfo del monaco eretico, e vendicarsi di coloro che l’avevano combattuto, a capo dei quali erano Flaviano ed Eusebio, i quali furono deposti. Ma perchè tutti firmassero la sentenza di deposizione, Dioscoro fece sbarrare le porte ed entrare i soldati i quali con le vie di fatto s’imponevano a chi cercava di ribellarsi a tanta violenza; e, al colmo dell’ira, percosse e calpestò con altri facinorosi san Flaviano, che dopo tre giorni morì. Così il conciliabolo ottenne il suo scopo; e dopo aver proceduto ad altre deposizioni, e aver fatto delle nomine arbitrarie, si chiuse ignominiosamente.

Doveva salire al trono di Costantinopoli un nuovo imperatore, Marciano, perchè fosse possibile adunare un vero Concilio e condannare gli errori e le violenze di Efeso. Il Concilio di Calcedonia, apertosi l’8 ottobre 451, era stato minutamente preparato da San Leone, il quale dispose in modo che la verità avesse a trionfare. Infatti decisioni importantissime vi furono prese; si confermò la condanna di Eutiche, si ripararono le ingiustizie, e si pose fine ad abusi e disordini, infiltratisi nella disciplina.

Ma intanto che pensava a sostenere il grave peso del governo della Chiesa, a reprimere i disordini che in seno ad essa si manifestavano, altri còmpiti si presentavano al grande Pontefice. Non essendovi ormai a Roma che l’autorità del Papa a restar ferma e degna di confidenza fra la generale rovina, le circostanze e la forza delle cose facevano sì che i popoli ad essa si rivolgessero come all’unico porto dove fosse possibile trovar soccorso. Molte volte, in quegli anni disgraziati, i Papi erano stati gli intermediari fra gli oppressori e gli oppressi, e specialmente fra i vincitori e i vinti durante gli orrori delle invasioni; e questa volta il Pontefice doveva ancora salvare Roma, dalla ferocia dei più temuti barbari, gli Unni di Attila. Questo conquistatore, desideroso di gloria, non rispettava alcuna legge divina od umana: e come era stato capace di porre a morte il suo fratello, per regnare da solo, così era capace di sagrificare migliaia di persone per ottenere il suo scopo; ma sapeva, all’occasione, risparmiare tutto un popolo, e rinunziare, senza rimpianti, ai frutti di una conquista, se ciò gli offriva l’occasione di un bel gesto.

Dopo aver costretto l’imperatore Teodosio il Giovare a pagargli un tributo, ed essere penetrato in Germania,
dopo essere stato sconfitto sui campi di Catalauni, riappare in Italia, pone a sacco Aquileia ed altre città e si avanza fin sotto Roma, che si trova, così, alla mercè del conquistatore. Riunitosi un consiglio, non potendosi tentare una seria resistenza, il Senato, l’imperatore e il popolo non seppero trovar di meglio che inviar messi ad Attila per domandargli la pace. Il grave còmpito fu assunto da San Leone, il quale, fattosi incontro ad Attila, seppe così bene toccargli il cuore, che quel re pose fine alla guerra, ritirandosi al di là del Danubio.

Liberata così Roma e l’Italia dalla ferocia dell’invavasore, San Leone, tutto pieno di amor di patria, cercò di liberarla ancora, quando Genserico venne con le sue orde contro la nostra terra. Il capo dei Vandali quasi convinto dalle parole del Papa, promise che i suoi soldati non avrebbero distrutta la Città Eterna. E questa promessa mantenne; ma il saccheggio a cui egli si abbandonò fu spaventoso e durò quattordici giorni, avendo fine probabilmente il 29 giugno, festa di San Pietro.

L’opera del Papa continuò ancora viva, tenace, ben condotta per raggiungere il bene della Chiesa e del popolo; e non cessò la grande lotta intrapresa se non con la morte di San Leone, avvenuta il 10 novembre 461.

Tra la serie di grandi Papi che formano l’onore della Chiesa Romana, San Leone resterà sempre uno dei più grandi per il suo carattere, per l’alta capacità e l’acume del suo intelletto, per l’amore portato all’Italia, e per la vasta, considerevole opera compiuta nel breve giro di ventun’anni, e che gli fece meritare l’appellativo di Magno.

Alfredo Labbati.

Dove l’Italia è più bella

Con Andrea Maurel.

È proprio necessario presentare uno scrittore come André Maurel? Agli italiani di oggi e di domani basterà dire che André Maurel ha molto amato l’Italia e ad essa ha dedicato quattro volumi, in cui, descrivendo le piccole città della penisola, ha trasfuso le sue osservazioni spesso originali, quasi sempre spirituali e un vero fiume di finissimo umorismo francese, che di questi quattro grossi volumi fanno una lettura varia e piacevole così che riescono accetti quasi come se le brochures racchiudessero dei romanzi dovuti alla penna più cara ai lettori d’oggi.

E questo, se è merito del tutto francese, e una delle doti precipue dello scrittore di cui mi occupo.

Un po’ tutti quanti, fanno professione di letterati e di impressionisti si sono occupati della nostra terra, e con metodi sempre diversi; ma i francesi, in ciò, hanno battuto, come oggi si dice, il record nella exploitation della nostra bella terra. Come lo stesso autore avverte, da Carlo VIII a noi, la scoperta dell’Italia è stata un po’ una mania dei francesi.

Mania giustificata, quando noi, gl’italiani, abbiamo avuto quasi sempre un certo pudore — che un malevolo potrebbe chiamare ignoranza — nel parlare del nostro paese.