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IL BUON CUORE 275


dal Fuga per la benedizione papale. Il mosaico è diviso in due parti: una, dirò così, paradisiaca, e una terrestre. E questa divisione aveva fatto pensare da principio a due artisti diversi, al Rusutti — che avrebbe eseguito il cielo terrestre — e Gaddo Gaddi a cui si sarebbero dovute le scene del patrizio Giovanni. Ma quest’ultima affermazione si trova nelle Vite del Vasari, il Vasari non è mai una fonte troppo sicura quando si tratta di opere d’arte romane. Oggi il Venturi ha restituito al Rusutti il più bel mosaico, che egli avrebbe eseguito nel 1294 per ordine dei cardinali Giacomo e Pietro Colonna di cui si veggono gli stemmi nella parte decorativa della composizione. Questo mosaico è diviso in quattro, grandi quadri, che rappsesentano il sogno del patrizio Giovanni e il sogno di papa Liberio, la visita di Giovanni al Pontefice e la grande processione sul luogo del miracolo, e ogni quadro ha cartigli esplicatorii, l’ultimo dei quali spiega l’origine della chiesa: «Quando Papa et Johannes patritius cum clero et populo romano nive dealbatum moementes locum fodere volebant et terra per se aperta est». In esso, l’oscuro discepolo di Cimabue ha designato con la cura minuziosa agli artisti del suo tempo ogni personaggio e ogni particolare, sì che oggi acquista un interesse di documento dove i tessuti degli abiti, gli ornamenti delle persone, le suppellettili della casa rappresentano una testimonianza preziosa per la sua vivezza e per la sua verità.

Più tardi la scena rimase viva nel!a memoria degli artisti e per la dolce poesia che ne emanava ispirò le loro menti e diresse le loro mani in modo ammirevole. Sempre per la basilica liberiana la dipinse il Masaccio sopra una tavola che — distrutto il tabernacolo primitivo — andò peregrinando in qua e là finchè sembra finisse al Museo Nazionale di Napoli dove si trova ancora. E la scolpì Mino del Reame per uno dei quattro bassorilievi che adornano le quattro facce dell’altare antico. Anche questo altare, per molti anni era stato attribuito per inganno di omonimia certamente e sulla fede di Giorgio Vasari, a Mino da Fiesole. Oggi la critica glielo ha tolto per darlo al suo competitore Mino del Reame, un artista meno raffinato, ma più robusto, meno ideale ma più osservatore della vita. Nel bassorilievo della Madonna della Neve, egli ci rappresenta la scena della processione, quando il Papa Liberio traccia sulla neve i piani della basilica futura. Nel fondo si veggono le colonne di un portico romano nel cielo un serafino alato lascia cadere il nembo nevoso che spargendosi sul terreno forma lo strato «dealbatus» su cui il Pontefice ha disegnato la pianta della chiesa. Di fronte al Pontefice è il patrizio Giovanni, circondato dai suoi compagni e vestiti tutti col grosso robone quattrocentesco. Questa l’ultima opera d’arte suggerita dalla leggenda: che se poi si volesse scendere più giù, si troverebbe una tela nereggiante del Bastaro, che è appunto sull’altare della navata di destra, e che dà al miracolo una rappresentazione essenzialmente barocca. Ma il Bastaro era un artista mediocre, e il suo quadro non può mettersi accanto ai mosaici giotteschi nella facciata e ai bossorilievi del buon Rinascimento murati nel tamburo dell’abside.

In quanto alla festa, che tramanda viva la leggenda di Papa Liberio e del patrizio Giovanni, i romani la conoscono bene, e non mancano mai di parteciparvi nella bellissima cappella che Flaminio Ponzio eresse nel 1611 per il Papa Borghese. Ogni anno durante la prima messa del giorno anniversario — i chierici della basilica salgono sul ballatoio della cupoletta, tutta affrescata con enfasi secentesca da Ludovico Aveli, e di là fanno piovere sui fedeli inginocchiati d’innanzi al sacerdote celebrante, tutta una nevicata di gelsomini e di rose, di oleandri bianchi e di tuberose. Così, dopo settecento anni, il miracolo continua a rinnovarsi, e nè l’incredulità di Benedetto XIV, nè l’ateismo delle moltitudini contemporanee, sono riusciti a sradicarlo dalla fantasia del popolo, il quale, in pieno agosto sogna ancora, con l’ingenuità della fede primitiva, la bella poesia di questa nevicata odorosa e soprannaturale.

(Dal Giornale d’Italia)

Un araldo d’italianità vittoriosa

L’opera compiuta da alcuni esseri privilegiati, nel breve giro della loro vita, risplende di tanta luce propria, che non ha bisogno del canto dei peti, per entusiasmare e commuovere il cuore degli uomini. Basta la nuda storia a far comprendere la loro grandezza; ed è sufficente la severa e scheletrica enumerazione di quanto essi compirono onde la loro figura appaia nelle proporzioni dovute. Perchè il solco che, con ferma mano, impressero al secolo, che da essi prese nome che di essi si gloriò, fu così profondo e così diritto da meravigliare non solo i contemporanei, ma anche maggiormente noi, che, con animo spassionato, possiamo giudicare i lontani avvenimenti; e perchè essi seppero su ogni cosa aver padronanza con la luce del loro intelletto, e con la forza della loro volontà.

E non reca, quindi, stupore che il raccontare la loro vita significhi fare naturalmente opera di poesia, costrurre uno dei migliori poemi, elevare un canto di gloria; anche se colui che si accinge al compito voglia mostrarsi un severo ricercatore di fatti e di documenti. Ma è proprio da questi fatti e da questi documenti che balza fuori, viva e possente, la poesia vera, quella che non è racchiusa nemmeno nella magnificenza della strofa nella ricchezza del verso.

Appartiene a questa piccola schiera di privilegiati, ed ha fra essi un posto a parte, quel gran papa che fu San Leone Magno.

Venne egli tra gli uomini quando tutto sembrava sconvolgersi, e tutto sembrava precipitare verso la rovina; ed ebbe agio di vedere come venisse preparandosi lo sfacelo politico di cui va segnato il quinto secolo dell’era volgare. Ben di rado, sia prima che dopo di lui, il capo della Chiesa ebbe necessità di una tale somma di qualità rare e diverse per essere all’altezza di una missione che gli avvenimenti politico-religiosi e lo stato delle coscienze rendevano ogni giorno più dif-