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230 IL BUON CUORE


dizioni su accennate per l’ammissione degli operai nelle Trades-Union non bastassero, accentuano speciali restrizioni in materia. Al signor Giulio Ricciardi, R. Viceconsole a S. Francisco, è personalmente accaduto di constatare che operai italiani regolarmente ascritti alle Unioni dell’Est degli Stati Uniti non sono stati ammessi nelle Unioni della California, quantunque si fossero completamente uniformati alle regole statutarie. La conseguenza dannosa di questo stato di cose si è che i non appartenenti all’Unione non possono esercitare il mestiere che pur esercitavano in patria e devon acconciarsi al lavoro che trovano. Oh i frutti amari della libertà americana!

A dimostrare che lo spirito dominante in talune classi di queste regioni non è favorevole all’emigrazione in genere e all’italiano in particolar modo, basti rammentare un’ordinanza abbastanza recente del Municipio di San Francisco, che vietava l’impiego nei lavori della città a coloro che non sono cittadini americani: tale ordinanza venne già applicata e in misura abbastanza rigorosa, perchè 300 operai italiani i quali lavoravano alle fognature furono subito licenziati, senza che il Regio Consolato abbia potuto far niente in loro favore. E ancora. Fu il deputato dello Stato di California, l’on. Hayes che, presentando un progetto dí legge ’sulla emigrazione, introdusse criterii nuovi di esclusione a danno dei nostri emigranti, progetto che sollevò una forte reazione non solamente nell’ambiente coloniale nostro, ma anche nella stessa opinione pubblica americana.

E’ ben vero che tutto questo movimento ostile alla nostra immigrazione operaia è avversato e in parte neutralizzato dall’opera di coloro che in un rapido incremento demografico vedono giustamente la prosperità avvenire di questi paesi e anche dall’epoca delle classi proprietarie e imprenditrici, che in una grande offerta di mano d’opera, abile e a buon mercato, hanno il solo mezzo per tener fronte alle potenti Leghe del lavoro; ma a noi proprio non conviene che la nostra immigrazione operaia sia l’oggetto di tali dispute tra questi formidabili contendenti, tanto più che i primi a scapitarne sarebbero poi sempre gli inermi operai nostri. L’opera di coloro che vogliono il popolamento si esplica per mezzo di comitati e agenzie innumerevoli: è nota a questo riguardo l’opera del California Promotion Commitee, formato da industriali, commercianti, proprietari di tutto lo Stato, che non ha trascurato nessun mezzo di réclame per invogliare all’immigrazione in California, dagli innumerevoli opuscoli che pubblica e distribuisce gratuitamente, fino ai grandi uffici succursali stabiliti negli Stati dell’Est. Dicono anzi — ma non ci fu dato il modo di controllare l’affermazione — che l’opera di questo comitato non si arresta ai confini’ degli Stati Uniti, ma esso cerchi di agire pure nei paesi di origine degli emigranti.

Noi dobbiamo lamentare che questa ed altre istituzioni che favoriscono l’immigrazione in California in modo cosi generico, non attuino poi praticamente nessuna opera di protezione e di assistenza sociale a favore degli emigranti, una volta che colà si sono
stabiliti, ma li lascino in balia di sè, non fornendo loro neppure esatte ed attendibili notizie sui vani mercati di lavoro e non mettendoli in guardia contro i varii pericoli minaccianti i loro interessi.

Indubbiamente migliori delle condizioni degli operai nelle città sono quelle del settlers: si calcola che in California vi siano circa 10,000 coloni italiani che praticano l’agricoltura per loro conto e con ottimo successo. Anzi furono gli agricoltori quelli che in certo qual modo rinvennero nella California la terra promessa. E non solo vi trovarono terreni di una grande fertilità e in ottima posizione per lo smercio dei prodotti agricoli, un clima simile a quello dell’Italia, ma anche trovarono trapiantati colà i sistemi della moderna tecnica agricola che le industri popolazioni anglosassoni avevano sopratutto avuto a cura. I fattori della floridezza agricola della California, che avvantaggiarono i nostri coloni, furono specialmente due. Anzitutto la suddivisione delle grandi tenute (ranchos) in piccoli appezzamenti di terreno, poichè la piccola proprietà, mentre mette a parte dei benefici della terra un numero maggiore di agricoltori, permette una accurata coltivazione intensiva. E inoltre la costruzione di canali d’irrigazione. L’irrigazione — affermano gli americani del Nord — è la gran maestra della cooperazione agricola, perchè mentre gli agricoltori sono forzati ad associarsi per la distribuzione dell’acqua sui loro terreni, acquistano nel medesimo tempo la conoscenza della grandissima utilità di simili associazioni per la vendita dei prodotti, per le compere collettive di macchine e strumenti agricoli, di provvisioni e di derrate. E la cooperazione agricola è infatti diffusa in California anche tra i nostri settlers1

Ma se tali opportunità favorirono i nostri agricoltori nei primi tempi dello sviluppo della California agricola, sarebbe errato il credere che una forte immigrazione agricola avrebbe ora senz’altro fortuna. Anche qui i terreni redditizzi o perchè fertili, o perchè vicini ai mercati o alle vie di comunicazione, sono già stati accaparrati: occorrono capitali considerevoli per rendere le altre terre adatte a una prospera colonizzazione: le preparatory expenses, che consistono nell’aprire nuove strade, nel far prosciugamenti2, nella misurazione dei terreni, devono rendere colonizzabile la smisurata terra libera che ancora rimane. I capitali naturalmente non mancherebbero, ma sono restii ad affluire a questa colonizzazione della California, prima che un grande incremento della popolazione non li chiami con insistenza.

Per i capitalisti, ben inteso, il ragionamento non fa una grinza: per loro il popolamento ad ogni costo è sicura arra di ingenti profitti. Ma dobbiamo noi pro-

  1. Si veda il recente articolo sulla cooperazione in California nel Numero di Settembre dell’American Economie Review.
  2. Nonostante il vantato clima della California, esistono ancora grandi estensioni di terra nella grande vallata centrale, affette dalla malaria. (Si vede in proposito a pag. 87 della relazione sui servizi dell’emigrazione per l’anno 1909-1910).