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180 IL BUON CUORE


può rendere prontamente occupati, sufficientemente provveduti, relativamente indipendenti.

Qui si presenta la questione, inevitabile in ogni progetto, dei mezzi occorrenti per attuare il progetto stesso. Una parte di questi mezzi potrà essere fornita dai mezzi che già si hanno: sarà una semplice trasformazione: i mezzi che si adoperavano per alcuni inutilmente per la musica, si adopereranno utilmente pel lavoro.

Del resto la questione dei mezzi, quando sia provata la loro necessità, non deve impensierirci. Siamo a Milano, siamo nell’Istituto dei Ciechi. L’onorevole Consiglio, felicemente inspirato, ha voluto che quest’anno si facesse l’esposizione dei ritratti dei benefattori: finita l’accademia, voi li potrete osservare sotto i portici del piano terreno dell’Istituto, nei due compartimenti maschile e femminile: andate a vederli: è uno spettacolo imponente, commovente. Cominciando dal quadro del cav. Barozzi, che senza un centesimo in tasca, si accinse a fondane l’Istituto raccogliendo un bambino cieco e una bambina cieca, arrivando ai ritratti del conte e della contessa Mondolfo, che possono dirsi secondi fondatori dell’Istituto, avendo dato in diverse riprese L. 700,000; e poi ai quadri delle sorelle Zirotti, che col fratello ricordato in busto qui fuori nell’atrio del salone, hanno dato all’Istituto più di un milione, voi vedrete succedersi più di novanta ritratti di benefattori che nel corso di settant’anni hanno fatto oggetto della loro liberalità l’Istituto: vi sono persone di tutte le condizioni: patrizi e popolani, sacerdoti e militari, industriali e magistrati, donne modeste e nobili dame: gli ultimi due quadri eccoli qui sul palco: il marchese Emanuele D’Adda che diede L. 50,000: la sua liberalità è bene ricordarla nel quadro reso così al vero dal pittore Bosis di Bergamo: la signora Elisa Marzorati vedova Dell’Acqua, già consocia al marito nel dono all’Istituto di una bella casa in via Cernaia: chi fece assai bene il ritratto del marito, il signor Laforet, era conveniente che avesse l’incarico anche del ritratto della moglie, riunendo nell’arte chi era stato unito nella beneficenza.

Tutti quei quadri sono un esempio, sono una speranza: dinnanzi ad essi come non credere che quando un appello venisse fatto per formare, per consolidare l’opera del Patronato, che deve rendere proficua, universale, duratura, l’assistenza del cieco, questo appello non abbia ad essere accettato, corrisposto con animo aperto, con entusiasmo?

Un grande spettacolo presenta in questo momento il nostro paese: l’Italia combatte in Libia e nell’Egeo per la sua grandezza e per la causa della civiltà: bisogni urgenti, imperiosi di soccorso si sono successivamente presentati: che cosa ha fatto, che cosa fa l’Italia? Insieme al sangue de’ suoi figli ha profuso e profonde tesori di beneficenza. Ecco il cuor della madre: è su questo cuore che noi appoggiamo le nostre speranze: inneggiando alla beneficenza dell’Italia verso i suoi figli, inneggiamo alla beneficenza inesauribile di Milano verso l’Istituto.

I salesiani di D. Bosco

pei figliuoli degli espulsi dalla Turchia


Dalle notizie pubblicate da noi e da altri giornali è già nota la generosa e patriottica offerta dei buoni Salesiani in favore dei figliuoli degli espulsi dalla Turchia.

L’idea di offrire l’ospitalità degli istituti salesiani ai figli bisognosi dei profughi dalla Turchia è sorta spontanea nella mente di don Albera, il quale, fin da quando l’espulsione era solo minacciata, cominciò a preoccuparsi della sorte dei poveri fanciulli e ne fece spesso argomento di conversazione. Intanto le cose precipitavano; i primi profughi giungevano a Napoli ed il Governo pensò di nominare la Commissione centrale di soccorso. Don Albera non esitò un momento: radunò il Consiglio superiore dell’Istituzione Salesiana, espose il suo progetto, che fu approvato tra l’unanime commozione, e spedì il noto telegramma della Commissione centrale.

Il conte Gallina, presidente del commissariato della Emigrazione, così rispose a don Albera:

«Ricevo generosa profferta della S. V. a favore giovanetti orfani od abbandonati, espulsi dalla Turchia. Mentre riserbomi comunicare eventuali notizie al riguardo, mi è sommamente grato constatare che anche in questa occasione cotesta nobile Istituzione unisce alla sua alta missione di carità il più vivo sentimento di patriottismo»

L’attuazione pratica della pia idea fu affidata al dottor don Francesco Cerruti, direttore generale delle scuole Salesiane ed al sacerdote dott. Arturo Conelli, ispettore degli Istituti Salesiani del Lazio. L’esperienza e l’autorità del primo e il tatto ed il cuore del secondo, lasciano pienamente tranquilli sulla felice riuscita della iniziativa di don Albera.

D’altra parte i Salesiani tutti hanno accolto con entusiasmo la nuova opera dalle Alpi ai piani fioriti di Sicilia.

Singolarmente toccante è la lettera di istruzione inviata ai vari collegi, che sono abitualmente rigurgitanti e nella quale è notevole questo passo:

«.... Accoglierai di gran cuore cotesti giovanetti profughi.... Sii loro in luogo del padre e della madre nel modo che la tradizione nostra insegna chiaramente. Abbi cura sopra tutto che nulla manchi mai di vestiario a cotesti figliuoli, sicchè in quantunque momento possano presentarsi puliti a chiunque. Fa che non passino i giorni in ozio; se avessero a soffrire nella salute, non risparmiate rimedi».

Ed ecco i criteri adottati per la scelta dei giovanetti.

Nel primo colloquio che il dott. don Conelli ebbe col conte Gallina si fissarono le modalità ed i criteri informativi della scelta. L’intesa fu facile: tutti i giovanetti bisognosi dai 7 ai 12 anni possono essere ritirati negli Istituti Salesiani a queste due sole condizioni: che siano figli di italiani e che non siano affetti da malattie infettive. Non è fatta esclusione di alcuna confessione religiosa, ed i fanciulli che appartenessero ad una religione diversa dalla cattolica saranno rigorosamente