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114 IL BUON CUORE


VIVERE


Ogni giorno la cronaca dei giornali ne parla.... spesso la cronaca si allunga: sono tre, quattro.... il loro atto è la «corsa alla morte» e vengon chiamati «gli stanchi della vita», i «disertori della vita».

Disertori, sì, stanchi, no! Non chiamiamo «stanco» chi, bene spesso (il numero dei giovani supera nei suicidii quello degli adulti), è alle prime difficoltà.... Al confronto della ragazza che si dà la morte per una osservazione un po’ vivace, o per una delusione d’amore, quale valore di superiorità acquistano le centinaia di fanciulle (non usciamo dal limite d’età), che accettano coraggiosamente il dolore quotidiano, reiterato, d’una esistenza faticosa, gravosa, contraria ai loro gusti? Per un giovane che chiude gli occhi appena un lampo sinistro traversa il suo cielo, moltitudini di vite fiorenti lavorano indomite, tra la tempesta e il naufragio. Per una madre che rifiuta il posto al focolare, migliaia vi siedono, doloranti, ma rassegnate.

Perchè morire?

«La vita non val più la peha d’essere vissuta».

Perchè?

«La sosteneva una speranza, la confortava un affetto, non era tutta grigia, come oggi: oggi il cielo è scuro e il coraggio se n’è andato tutto, tutto. Non mi resta che un’oncia di forza: quella di darmi la morte».

Conviene anzi tutto ribattere questo nome di «forza» dato all’atto di debolezza, di viltà compiuto da chi, in qualsiasi modo, si dà la morte. A ribatterlo gioverà l’osservare come — per confessione molte volte fatta dallo stesso suicida, sia maggiore il coraggio di sopportare la vita così qual’è che non quello di sottrarvisi — e gioverà pure il paragone del soldato che è eroe se affronta il pericolo e si lascia, all’occorrenza, uccidere dal nemico, e sarebbe, al contrario, vigliacco se, in faccia al nemico, fuggisse, sia pure per ingoiare una dose di veleno, o per rivolgere contro sè l’arma. E se, nel dubbio sollevato nella nostra coscienza un pochino ottenebrata, qualche volta non sapessimo, nel caso d’un suicidio in condizioni comunemente dette pietose, distinguere dove sta la forza o la viltà e ci sentissimo tentati d’esclamare: «Ha fatto bene, anch’io avrei fatto altrettanto!» interroghiamo, allora, col filo di volontà buona che pur resta in noi, il fondo della nostra anima — là, dove l’istinto del vero, il bisogno del buono, il principio della giustizia abitano immancabilmente, soffocati, spesso, ma non distrutti mai — sentiremo, impulsiva e potente, una voce dire:

«No, no! la vita è sacra».

La vita è sacra!

Ma che ne sanno della vita questi che la rompono?

Chi ha loro mai parlato della vita?

Ed ecco qui il rimedio. Tutti possono, tutti devono, anzi, nel limite della loro cerchia e delle loro forze, attuarlo.

(Sia detto qui en passant. Tutti sono concordi nel deplorare i disordini, i mali: quanti pensano ai rimedi? guanti sentono la responsabilità di ripararvi? È strano,
come in questi tempi di collettività in ogni campo, non si senta la responsabilità collettiva di rimediare al male e — poichè la collettività è la somma di individui — la responsabilità individuale. Moltissimi si scaricano dalle spalle il dovere, dicendo «non tocca a me»; altri non sentono neppure di dover dire «tocca a me». Svegliamo la coscienza! Ch’essa diventi evoluta in questo punto importantissimo!).

Il rimedio dunque al male ineffabile del suicidio è «il far conoscere che cosa è la vita».

Parole facili, concetto complicato.

Quando noi avremo inculcato che la vita è una somma d’energie che devono essere spese per sè, per gli altri, per il bene proprio, per il bene altrui; quando avremo convinto che la vita ha valore per se stessa e non in quanto frutta materialmente, avremo insieme fatto sorgere il concetto che l’energia va impiegata fino all’ultimo, fino a che abbia raggiunto l’ideale suo, a costo del sacrifizio di qualsiasi altro. Diamo uno scopo alla vita: facciamo sentire che val la pena d’essere vissuta, sempre.

Ed ecco, così, sorgere, spontaneo — sole raggiante — il concetto vero, l’unico che può sopprimere il suicidio: la vita è il viaggio nostro a Dio. Nessun altro ideale può sostituirsi a questo.

Vi sono momenti dolorosi, sanguinosi cui può lenire il bacio materno — l’autorevole parola di conforto — la lacrima sincera — la coscienza del dovere operato — la speranza di un raggio, sia pur tenue, di luce - l’incontro d’un viso sereno — la possibilità di un’azione, anche minima — l’occupazione materiale, intensa, forte... Grandi o piccole cose, inezie talora (inezie, in apparenza, poichè vi sono minuzie: sguardi, parole, atti insignificanti in sè che acquistano valore dal momento), salvano l’anima dolorante.

Non sempre: il pensiero di Dio la salva sempre.

Diamolo dunque questo pensiero, e diamolo esatto. Non sia Egli l’Essere Sovrano che ha beneficato, benefica e beneficherà, a distanza, dominatore degli uomini come delle cose — non l’Essere che castiga con segni sensibili il popolo cattivo (quale concetto teologicamente sbagliato si dà del Signore in caso di disgrazie, di sventure, di accidenti sinistri!...) — non l’Essere Supremo che ha imposto doveri gravosi a’ suoi soggetti e li esige, inesorabilmente, senza conforto, senza dolcezza....

Diamo il concetto di Dio, padre, ognora, nella gioia come nel dolore, e nel castigo, anche; padre che intuisce, sa, compatisce, perdona; padre che si nasconde all’ombra delle amarezze che fanno lacrimare i cuori, ma che attende.... per raggiare più intensamente sulle anime nostre.

Per dare l’educazione alla vita, adoperiamoci tutti: la diano con la parola, con l’esempio, con l’opera, quelli che direttamente sono gli educatori, in famiglia, in iscuola, in chiesa, quelli che indirettamente — per posizione, per autorità, per superiorità morale — hanno o possono avere, se la cercano, influenza sulle anime; con l’esempio, almeno, tutti.

Ecco un esempio facile ed accessibile ad ognuno.