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54 IL BUON CUORE


«Ma è di Heinrich Heine che si tratta! ed io posso fornirti la sua biografia solo se tu me la detti dalla prima parola all’ultima».

«Hai ragione. Ma io stesso non scriverò mai nulla sul corso della mia vita. Le autobiografie rassomigliano a vecchie donne che si ringiovaniscono con denti finti, capelli posticci e gole imbellettate».

Il 1 novembre Gustavo e la sorella lasciarono Parigi fidandosi delle assicurazioni dei medici. I medici però l’indovinarono come sempre.

Col sopravvenire dell’inverno la malattia rincrudì in modo spaventoso, il poeta fu presto ridotto agli estremi.

Il 13 febbraio 1856, un mercoledì, egli lavorò, nonostante tutte, sei ore intere. Caterina Bourlois, la fedele infermiera, lo supplicò di riposarsi.

«Mi bastano ancora quattro giorni — le rispose: — poi avrò finito».

Il giorno seguente fu assalito da un terribile dolor di capo. — Una delle solite emicranie — si pensò. Ma il poeta con indicibile rammarico gemette a più riprese: «Povera mamma mia, io non ti potrò più scrivere!». Il venerdì mattina fu dovuto mandare in fretta per il medico. La morte s’avvicinava a grandi passi. Sabato sera manifestò alla Bourlois la sua contentezza d’aver riveduto la sorella e il fratello. Poi aggiunse con un fil di voce: «Scrivere!». L’infermiera capì che il suo pensiero tornava alla madre e gli rispose: «Sì, le scriverà lei stesso!». E il poeta: «Ah! Caterina, io muoio!».

Un poco più tardi l’infermiera cercò di fargli bere la pozione ordinata dal medico. Egli vi si rifiutò: «Sta tranquilla. Dirò io stesso al dottore che non l’ho voluta prendere. Cosa possono ormai concedermi più le medicine?».

Furono le ultime sue parole.

Alle quattro e tre quarti della domenica, albeggiando appena il giorno, il lungo martirio di Heinrich Heine era terminato.

Anche da questi ricordi del fratello, come dalle lettere del poeta, la figura di Heinrich Heine esce dunque modificata, direi quasi rettificata. Molta parte di quanto di odioso le avevano aggiunto le polemiche suscitate dalle sue opere, le ire da lui accese nel petto di avversari accanitamente, e troppo spesso ingiustamente colpiti, va cadendo col trascorrere del tempo, si va riducendo a proporzioni più vicine al vero. Anche gli ultimi giorni della sua vita — dei quali con troppa ed esclusiva compiacenza si ricordano solo quei tratti che meglio scolpiscono il lato più noto della sua personalità, l’ironia mefistofelica — li scorgiamo nei ricordi del fratello illuminati da un raggio di tenera affettuosità, più umani, più veri. Troppo manca a queste sue ultime ore perchè agli occhi di chi guarda in alto non appariscano tristi e sconsolate; ma ci conforta il sapere che l’uomo, il quale è presentato unicamente come un freddo schernitore di tutto e di tutti, sentì nella fine, come nel cuore della sua vita, l’impulso buono di un affetto, la mestizia di un’anima che conosceva l’amore.

Giuseppe Sacconi.


Religione


Vangelo della Quinquagesima


Testo del Vangelo.

Il regno de’ cieli è simile ad un uomo il quale seminò nel suo campo buon seme. Ma nel tempo che gli uomini dormivano, il nemico di lui andò, e seminò della zizzania in mezzo al grano, e si partì. Cresciuta poi l’erba e venuta a frutto, allora comparve anche la zizzania. E i servi del padre di famiglia accostatisi gli dissero: Signore, non avete voi seminato buon seme nel vostro campo? Come dunque ha della zizzania? Ed ei rispose loro: Qualche nemico uomo ha fatto tal cosa. E i servi gli dissero: Volete voi che andiamo a coglierla? Ed egli rispose: No; affinchè cogliendo la zizzania, non estirpiate con essa anche il grano. Lasciate. che l’uno e l’altra crescano sino alla ricolta, e al tempo della ricolta dirò ai mietitori sterpate in primo luogo la zizzania, legatela in fastelli per bruciarla; il grano poi radunatelo nel mio granaio.

Propose loro un’altra parabola, dicendo: È simile il regno de’ cieli a un grano di senapa, che un uomo prese e seminò nel suo campo: la quale è bensì la più minuta di tutte le semenze; ma cresciuta che sia, è maggiore di tutti i legumi, e diventa un’albero, dimodochè gli uccelli dell’aria vanno a riposare sopra i di lei rami.

Un’altra parabola disse loro: È simile il regno dei cieli a un pezzo di lievito, cui una donna rimescola con tre staia di farina, fintanto che tutto sia fermentata. Tutte queste cose Gesù disse alle turbe per via di parabole; nè mai parlava loro senza parabole: affinchè si adempisse quello che era stato detto dal Profeta: Aprirò la mia bocca in parabole, menifesterò cose che sono state nascoste dalla fondazione del mondo. Allora Gesù, licenziato il popolo, se ne tornò a casa; e accostatiglisi i suoi discepoli, dissero: Spiegaci la parabola della zizzania nel campo. Ed ei rispondendo disse loro: Quegli che semina buon seme, si è il Figliuol dell’uomo. Il campo è il mondo; il buon seme sono i figlioli del regno, la zizzania poi sono i figlioli del maligno. Il nemico che l’ha seminata, è il diavolo: la raccolta è la fine del secolo: i mietitori por sono gli Angeli. Siccome adunque si raccoglie la zizzania e si abbrucia, così succederà alla fine del secolo. Il figliolo dell’uomo manderà i suoi Angeli; e torranno via dal suo regno tutti gli scandali, e tutti coloro che esercitano l’iniquità; e li getterano nella fornace di fuoco: ivi sarà pianto e stridore di denti. Allora splenderanno i giusti come il sole nel regno del loro Padre. Chi ha orecchio da intendere intenda.

S. MATTEO, cap 13.


Pensieri.

La società umana è la mistica vigna, dove il buon agricoltore gettò buon seme — seme di vita all’intelligenza, di grazia al cuore, di vita in tutto. L’agricoltore primo è lo stesso nostro Signore Gesù Cristo colla dottrina sua celeste, irrorata dalle grazie della Redenzione,