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52 IL BUON CUORE


ferito, il quale se è lievemente colpito apre il sacco che porta il cane, prende un po’ di cibo se ha fame, ingoia qualche goccia del cordiale e medica sommariamente la sua ferita con le bende che il cane gli reca. L’animale resta presso di lui e abbaiando richiama l’attenzione dei portaferiti che sopraggiungono a raccoglierlo. Al contrario se l’uomo non fa alcun movimento in pochi salti il cane si precipita verso la ambulanza a significare, con guaiti, che un pronto soccorso è necessario.

Nelle ultime manovre tedesche su duecento finti feriti i cani ne segnalarono 80 in un quarto d’ora. Quattro cani di ambulanza, durante una manovra notturna, in una foresta interrotta da profondi fossati, riuscirono a scoprire in pochi minuti una ventina di soldati che vi si erano nascosti, molto lontano l’uno dall’altro. Le buone bestie per farsi seguire nel buio della notte dai soldati della Sanità, avevano al collare un campanello.

Ogni reggimento tedesco ha la sua scorta di cani di ambulanza e molte sezioni della Croce Rossa tedesca, ora al servizio dei turchi hanno delle pattuglie organizzate di cani infermieri.

Ora, torno a dire, io non so se la bella e irrequieta scolta di cani che viaggia verso la terra di Tripoli sia destinata anche al servizio di ambulanza, oltre che a quello di ricognizione e di polizia. Ma se per caso quei venti «amici dell’uomo» fossero educati più alla ferocia verso il nemico che alla pietà verso il caduto varrebbe la pena di ritornare sulla loro educazione dopo i preziosi risultati ottenuti altrove. Tutto bisogna tentare per rendere impossibile il dramma atroce del soldato che si è valorosamente battuto e che raggiunto da una palla agonizza senza soccorso sul campo di battaglia.

Pasquale Parisi.

Gli ultimi giorni di Heine

nei ricordi del fratello


Quando in Italia si dice e si ripete che l’autore del Buch del Leider e cioè l’ultimo e più singolare poeta della Germania romantica, ancor oggi, a mezzo secolo dalla sua morte, è misconosciuto, disprezzato, odiato dai suoi connazionali si dice e si ripete cosa che non collima gran fatto con la realtà.

Non nego già che manchino le prove a suffragare una simile opinione. Senza rivangare l’ormai trito anneddoto del simulacro del poeta espulso da Guglielmo II dall’Achilleion di Corfù, dove l’aveva alzato, in cospetto dell’azzurro Jonio, l’imperatrice Elisabetta, basta aprire il libro recente d’un critico tedesco assai stimato, il Bartels (Deutsche Dichtung der Gegenwart, Leipzig) per trovare giudizi di questa sorta: «Heinrich Heine è l’individuo più nefasto che sia passato, non dico nella letteratura ma nella vita tedesca»; basta ricordare le peripezie del monumento a Heine pel quale solo adesso pare che a Düisseldorf sua patria si siano ottenuti i pochi metri quadrati di terreno necessari, e accennare
al casetto di quel discorso inaugurale fresco di ieri nel quale l’oratore, citando un noto passo della Harzreise, si astenne dal fare il nome dell’autore per non offendere le orecchie del sovrano presente.

Ed altro ed altro si potrebbe addurre che però dimostrerebbe per Heine, un’ostilità ufficiale, e un’avversione che ha origine in un rancore che non sa perdonare, sentimento comune a tutte le comparse della tragicommedia umana.

Ma fuori delle sfere ufficiali e presso quanti sanno leggere nella profondità dell’anima umana, Heine vien giudicato con maggiore serenità e obiettività.

Lascio stare a conforto di quel che afferma il Heine-Kalender che ogni anno vien fuori a Lipsia: quale è l’uomo due dita più su della media che non abbia in Germania la sua chiesuola di fanatici, il suo editore-piovra, il suo bravo almanacco-réclame? Ma anche un passeggero contatto col popolo soprattutto e con le persone cui la cultura non appesantì lo spirito, è sufficiente per convincersi che il poeta è assai più vivo nel cuore dei vivi di molti altri numi dell’olimpo letterario, teutonico.

Forse è l'elegiaca-sentimentale la corda della sua lira che strappa maggior consenso e suscita maggiori simpatie? Forse: non certo quella dell’ironia viperina, del humour mefistofelico in cui risiede purtroppo gran parte della sua fama. Quale che ne sia la causa, è certo che I’ opinione che pretende Heine misconosciuto e ignorato dai suoi connazionali va relegata fra le voci leggendarie.

Il medesimo deve oggimai ripetersi di quanto sin qui correva intorno ai rapporti di Heine co’ suoi e in particolar modo col fratello Gustavo. Non senza colpa di alcuni parenti questi rapporti furono creduti nient’affatto fraterni, anche da alcuni illustri heinieni, quali, per esempio, il dott. G. Harpeles autore delle note opere: H. Heine und siene Zeitgenossen e H. Heines Memoiren.

Il Karpeles, che dedicò metà della sua vita allo studio del poeta prediletto, cominciò però a poco a poco, attraverso le sue ricerche, ad avere dei dubbi. Avuta occasione nel 1907 di conoscere il barone Maximilian von Heine-Geldern, figlio di Gustavo Heine ed unico superstite nipote del poeta, ottenne dalla sua signorile liberalità di poter esaminare le lettere e le altre carte del prezioso archivio domestico.

E con sua grande soddisfazione toccò presto con mano che i suoi dubbi erano giustificatissimi; che non meno della madre, della sorella, del più piccolo Max, il poeta amò il fratello Gustavo (il quale liquidata la sua azienda commerciale, si era stabilito nel 1829 a Vienna, dove col cognome materno percorse con fortuna la carriera militare); che la lontananza non portò alcun raffreddamento nei loro sentimenti reciproci: al contrario!

Quel ramo della Heine-Literatur che è costituito dalle cosiddette Familienpublikationem era già ricca. (Ricorderò tra parentesi e per ordine cronologico: Max Heine: Erinnerungen an H. Heine und seine Familie, 1868; principessa Marie della Rocca: Erinnerungen