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IL BUON CUORE 37


blime campagna romana pallida di vegetazione, e radiosa di sole. La bellezza antica e la fastosità della rinascenza, si uniscono mirabilmente, talora, artifiziosamente, nella costruzione mirabile del palazzo, nella disposizione fantastica dei giardini, nella profusione maliosa delle innumeri fonti, che mormorano sommesse con voce varia e canora le laudi del genio latino; e gemono talora della latina incuranza. Poichè Villa d’Este anche prima che passasse in mani straniere era già molto minore di quel che la volle il figlio di Lucrezia Borgia. E il silenzio, quasi l’abbandono è fino a ieri passato con sandali di muschio per i viali un po’ scapigliati dei giardini deserti. La cessione della Villa allo Stato e la fondazione dell’accademia, ritorneranno senza dubbio alla loro primitiva bellezza molte cose che ora si vanno sciupando. Quelle che non potranno interamente risorgere a vita novella, saranno per lo meno allontanate da una rapida morte. Villa d’Este racchiude entro la fuga delle sue sale frescate da Taddeo Zuccari e dal Muziano come entro i suoi lunghi viali i suoi folti giardini vigilati dai cipressi giganti i meravigliosi segreti dell’antica fastosità romana. V’è nella sua armoniosa bellezza come un diffuso senso di regalità, attenuato appena dalla leggiadria dei cento specchi d’acqua che giuocano i loro lievi, eterni giuochi d’argento.

La Villa fu iniziata per desiderio di un Cardinale spagnuolo, ma fu Ippolito d’Este, che la volle condotta a termine e adornata con tutta la ricchezza e il buon gusto tradizionale nella sua casa.

Noi non possiamo avere che una languida idea di quel che potesse essere quella residenza pittoresca ai tempi d’Ippolito nel 1550. Un inventario scoperto nel 1878, in cui erano catalogati i lavori di scultura contenuti nel palazzo, enumera ottantre statue, venticinque busti, sette figure marmoree di animali, sette tazze di marmo, tre sarcofagi e una pianta di Roma ad alto rilievo. Non è fatta menzione dei lavori di pittura, ma il fatto stesso che Ippolito fece dono ai monaci tivolani di Santa Chiara, di un Arcangelo Michele del Buonarroti, può darci indizio delle ricchezze pittoriche che il Cardinale doveva possedere, e serbare per sè, visto che poteva concedei si il lusso di simili doni. L’architetto fu, com’è noto, il napolitano Pirro Ligorio; l’animatore del parco fu l’ingegnere tivolano Olivieri, che derivò dal Teverone i mille rivoli d’acqua che irrigano tutta la villa, come vede pulsanti di un corpo giovane. Il bolognese Paolo Candrino curò l’ornamentazione delle varie fontane, Giacomo della Porta scolpì molte statue, ed altri innumeri artisti, i quali erano sotente accolti dal Cardinale, memore delle tradizioni ospitali di Ferrara gareggiarono in opere d’ingegno e di fantasia per accrescere la vaghezza della superba dimora.

Villa d’Este è forse uno dei luoghi in cui il visitatore, di qualunque condizione, nazionalità esso sia, trova facilmente il modo di accordare lo stato del suo animo con l’aspetto delle cose.

Quegli cui è dolce perdersi con lo sguardo nelle immensità luminose dell’orizzonte potrà salire sulla
terrazza del palazzo e contemplare lo sfondo sempre mirabile dell’Agro romano, solcato da due grandi nastri; l’uno argenteo e fremente: l’Aniene che sogna il salto clamoroso e meraviglioso nel Tevere; l’altro pallidamente biondo, quasi bianco, la via Tiburtina che va ad affondarsi nell’orizzonte d’onde emerge, nitidamente visibile la cupola di San Pietro. A destra e a sinistra di chi contempla, la chiostra dei colli tiburtini, cornicolani ed albani, vari di fisonomia, cangianti di colore, s’intagliano in capricciose file e gruppi nel cielo sempre un poco caliginoso, quasi qualcuno dei veli della precipite Aniene si fosse tennemente diffuso nell’aria. Ai piedi oltre il lucente verde del parco s’intrecciano si distendono le pergole dai pampini precoci, che maturano nella prima estate i dolci aguzzi chicchi di pizzutello.

A chi voglia andare a Villa d’Este io consiglio di socchiudere gli occhi durante tutta l’ascesa, per riaprirli davanti al panorama superbo cui ora accennavo, poi gustare con vigile attenzione fantasiosa le dolcezze della discesa. Si ha l’impressione che vi traggano al basso quelle mille vene d’acqua che vanno in cerca di riposo. Le curve degli scaloni scendenti a destra e a sinistra con larga voluta, che abbraccia nel suo semicerchio interno altre fontane, tutte ombrate di foglie, intricate di rami quasi selvaggi, appare più larga e più molle nel suo digradare. E ad ogni ripiano v’è una sorpresa; altre onde che sfuggono qua e là mormorando; piccole grotte misteriose, vasi di fiori e giuochi di corimbi striscianti, come serpentelli assetati, in cerca delle acque. E le voci delle fontane dopo la visione ampia dell’orizzonte tivolano, sembrano più eloquenti e più ricche quando lo sguardo e il pensiero si sono purificati nella visione del cielo, nella contemplazione dei colli. Udendo chiacchierare i piccoli rivi vi pare cogliere meglio il segreto delle loro peregrinazioni montane, delle loro impazienze di sgorgare a fiocchi, a bioccoli, a sprazzi dalle tenebre verso la luce.

E quando si è — come dire? — saturi di quell’atmosfera di bellezze, di quei capricci inestinguibili di artisti esemplari che vollero giocare con le acque come una ricamatrice con i suoi fili di seta, il viale delle cento fontane che corre parallelo al fronte del palazzo, vi chiama con le ombre misteriose delle vaschette allineate e sormontate da bizzarri simboli di deità favolose. Sembra davvero che ognuna di quelle piccole cannelle ormai quasi aride, abbia una sua voce particolare; si crede fermamente che un giorno debba avere ognuna di esse parlato con parole canore.

V’ha una di quelle fonti detta dell’organo. Si dice che, cadendo, l’acqua traeva veri accenti musicali.... Ma chi pensa a quel che possa essere Villa d’Este, in una notte d’estate, per esempio, fra il fremere delle foglie, il palpitare vario dei piccoli flutti e le note degli usignuoli, non rimpiangerà forse che l’organo della piccola fonte non suoni più, esso non è certo indispensabile alla sinfonia del parco malioso.

Ora questo mirifico luogo è destinato ad artisti. Si ha, pensando a questo quasi invidia e timore per loro.... Poichè se in quel regno di bellezza molteplice, la gio-